Le cose da salvare, Ilaria Rossetti
(Neri Pozza, 2020)
Notti magiche, il film del 2018 diretto da Paolo Virzì, si chiude con quello che vorrebbe essere una specie di testamento a tutti i giovani che oggi si mettono a scrivere storie – che siano film o romanzi ha poca importanza. È un testamento breve, contenuto in una sola frase attribuibile, a quanto pare, a Furio Scarpelli, uno dei più grandi sceneggiatori del cinema italiano, che in coppia con Agenore Incrocci ha scritto capolavori immensi come I soliti ignoti, La grande guerra, C’eravamo tanto amati, La terrazza – giusto per citarne alcuni. La frase è questa: “Guardare fuori dalla finestra, sempre”.
Sarebbe un invito: giovani, fate attenzione, non chiudetevi in voi stessi, non indugiate a raccontare quei due o tre fatti irrilevanti della vostra vita, là fuori è pieno di cose molto più grandi – e diciamolo: più interessanti – di voi. È il manifesto, se vogliamo, di un certo modo di fare cinema, quello tipico della commedia all’italiana – che oggi non esiste quasi più – ma anche, volendoci spostare alla letteratura, di molti tra i più grandi scrittori della seconda metà del Novecento che oggi studiamo e cerchiamo invano di eguagliare. Mi riferisco ai cultori del cosiddetto Grande Romanzo Americano, quell’idea di un romanzo-mondo che contenga una rappresentazione di tutti i livelli di una certa società in un certo momento storico.
È chiaro che la scelta di porsi questo obiettivo sta solo a chi scrive, e che se uno ci crede non lo si può e non lo si deve criticare. Ogni volta che penso a questa aspirazione però mi viene subito in mente il suo risvolto, il rischio duplice che si corre quando ci si butta a raccontare grandi eventi della storia recente, ovvero da un lato quello di incappare in soluzioni banali e fiacche – scrivere un romanzo che racconta il viaggio di un migrante solo perché il tema sembra uno dei più scottanti: ma quanti ne sono stati scritti di romanzi così?, quale sarebbe la novità proprio del mio?, che cosa ho di davvero intelligente da dire su questo fenomeno? –, dall’altro lato il rischio di esporsi ai criticoni che la pensano malissimo di chi fa questo tipo di operazione, e che tendono a definire questi autori furbi quando vendono un sacco di copie, senza spina dorsale quando ne vendono poche.
Insomma, è un rischio, può andare bene o può andare male: la linea che separa un libro attualissimo da un libro insignificante è sottile. Ne era consapevole Jonathan Safran Foer, per esempio, quando ha scritto il suo struggente secondo romanzo, Molto forte, incredibilmente vicino, pochissimo tempo dopo la tragedia dell’11 settembre, in un momento in cui il mondo non aveva ancora digerito quello che era successo – noi eravamo ancora lì a cercare di capire, a mettere insieme i pezzi, e lui se n’era uscito con un romanzo su quella faccenda. È stata una mossa incosciente o molto coraggiosa, a seconda di come uno decida di vederla; è stato come cercare di prendere un toro imbizzarrito per le corna: puoi uscire come un eroe, ma puoi anche rimetterci la vita.
Il toro che ha provato a prendere per le corna Ilaria Rossetti invece è il crollo del Ponte Morandi di Genova: quel fattaccio a cui abbiamo assistito nell’estate del 2018, un evento terribile che sembra ancora dietro l’angolo, anche perché l’ultima campata del nuovo ponte è stata posata ad aprile, quindi un mese fa. Invece il romanzo della Rossetti, Le cose da salvare, già nel 2019 vinceva il Premio Neri Pozza, bruciando le tappe della ricostruzione, raccontando quella ferita prima ancora che fosse stata letteralmente rimarginata: avrà iniziato a scriverlo, considerando i tempi, pochissimi giorni dopo il disastro, e quindi probabilmente con totale incoscienza, senza chiedersi troppo cosa stava facendo – oppure illuminata da una fulminante intuizione.
Credo di non essere stato l’unico ad approcciare questo libro con curiosità ma anche con forte sospetto: le probabilità che si rivelasse un buco nell’acqua erano alte. Ero scettico, e legittimamente. Non sapevo ancora che la Rossetti ha una scrittura intensa e torrenziale – emotiva, verrebbe da dire, proprio come quella del già citato Foer – e a parte quella ha avuto la maturità e la grande intelligenza di raccontare la storia di quel crollo a partire dal basso, a partire in sostanza dai crolli intimi, privati, di alcuni personaggi che intorno a quel ponte hanno costruito i loro affetti e accumulato le loro esistenze.
Insomma, come ogni grande storia quella della Rossetti non è una storia di attualità ma di intimità: una storia di vite che crollano e che si ricostruiscono. A parte il ponte, dentro ci potete trovare l’immobilità e la nostalgia: quelle di Gabriele Maestrale, che a dispetto del suo cognome si attacca alla propria casa anche quando questa sta cadendo a pezzi, perché indeciso su cosa portare via – ma anche grandi speranze e futuri inaspettati: come per il padre di Petra, che dopo la morte della moglie sa trovare nel passato i pezzi per riparare il presente e per immaginare un futuro.
E il paragone con il romanzo di Foer davvero non è casuale: ho ritrovato, in Le cose da salvare, un’energia simile, anche se forse in qualche passaggio la troppa poesia mi è sembrata indigesta. Ci ho trovato, soprattutto, la stessa sensibilità, l’eleganza di raccontare il presente tenendolo sullo sfondo, lasciandolo emergere appena dietro le vicende dei personaggi. È questo che deve fare la letteratura: tenere a mente i dettagli, le circostanze individuali. Guardare fuori dalla finestra, certamente, ma facendo attenzione a chiuderla al momento giusto, per non dissipare il tepore che c’è dentro.
Pierpaolo Moscatello
trasformare in un probabile omicidio colposo nell’ennesimo dramma intimista è un’operazione che sarebbe stato meglio evitare, a mio modo di evitare. Sia chiaro: non dubito del vostro giudizio o di quello della casa editrice: che sia scritto bene, solo che ormai il male non esiste più, ma esistono solo i drammini famigliari o le cose intimiste che vanno tanto anche racconti dei nostri giorni.
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