La Ferrarina – Taverna, Franca Valeri
(Einaudi, 2020)
Quando a luglio mi sono avvicinata alla lettura de La Ferrarina – Taverna, ero convinta che nello scriverne la recezione avrei avuto l’opportunità di soffermarmi sull’opera della Valeri per tratteggiare la figura di un’artista, e non di un ricordo. Compiuto suo centesimo compleanno, Franca Valeri ci ha lasciato proprio così come aveva fatto Gianrico Tedeschi appena una decina di giorni prima – altro maestro della scena italiana, attore versatile e multiforme al pari di Franca, anche se in maniera diversa. Eppure tutt’ora rimango convinta che di un artista si debba parlare prima in quanto artista, vivo o morto che sia, e poi in quanto persona, e che i necrologi e le ricorrenze, sebbene non se ne possa fare a meno, nella loro eccezionalità suonino come un modo di camuffare una lacuna d’attenzione mediatica colmata troppo tardi.
Varie sono state le iniziative, persino editoriali, scaturite in occasione dei cent’anni dell’attrice e drammaturga Franca Valeri. Tra di esse, appunto, la pubblicazione da parte di Einaudi de La Ferrarina – Taverna, atto unico finora inedito. Sarebbe limitativo definire questo testo “a due facce”, perché è nell’avvicendarsi di numerose sfumature di genere e di intento che il suo stile svagato trova una voce e un senso di più ampie vedute. La sua stessa genesi si situa al confine tra diverse modalità di fruizione: nata insieme ad altre tre piéce su richiesta della Rai nel 1970, pur parlando in quanto copione la lingua del teatro, La Ferrarina – Taverna è una commedia pensata per la televisione.
Dico commedia, ma dovrei astenermi dal forzare questo testo teatrale entro un preciso scompartimento di forma, se effettivamente la Valeri stessa non si diede cura di rispettare i limiti della categoria. Al contrario, è nel convivere simultaneo oppure alternato del comico – la situazione contraddittoria messa in scena –, del dramma (il gusto agrodolce o noir del finale), della tensione, con il ritmo serrato ma enigmatico di certi dialoghi, del “blaterio” – ora l’imbarazzo ora la noncuranza dei monologhi sciorinati dalla protagonista, vuoti eppure sempre funzionali nel contesto, e per niente facili da scrivere… Insomma, è nel convivere di tutti questi elementi che la Valeri srotola davanti al lettore l’inventario delle proprie abilità drammaturgiche, spesso dimenticate sotto la patina di aspettative lasciata dalla sua fama di caratterista.
Basterebbe l’incipit della didascalia all’inizio del libro per afferrare tanto la disinvoltura quanto la precisione, la chiarezza di mire della Valeri scrittrice: «Saletta di un ristorante rustico con pretese». Nella limpidità ossimorica di un’apertura come questa c’è già tutto. C’è una trattoria che millanta la qualità del proprio cibo casereccio e delle proprie frequentazioni, ma che di fatto appare subito un pessimo specchietto per le allodole; c’è una coppia in crisi, che si ferma per pranzo alla suddetta trattoria, e che con modi bizzarri, stralunati ma mai espliciti, sembra non temere di preannunciare tanto al pubblico quanto al personale della trattoria l’imminenza di una tragedia; e poi c’è una ristoratrice, la proprietaria della trattoria, che di fronte all’irritante deferenza dei suoi clienti può solo continuare per la sua strada e sfoderare una pletora di stratagemmi per millantare cibo casereccio e frequentazioni di conto – nell’originale televisivo, la Valeri stessa, ovviamente.
E infatti l’autrice-attrice non disattende neppure alle aspettative del suo pubblico: ecco il carattere, ecco la caratterista. Ma anche nel carattere della signora Lide, la proprietaria, così come soprattutto nei personaggi dei due clienti, si insinuano le tracce di una particolare forma di finezza psicologica. Non che si tratti, nel caso dei protagonisti, di figure di chissà quale profondità emotiva. La bravura della Valeri non sta nel rimanere in superficie come se esistesse soltanto la superficie, ma nel farlo come se, sotto la superficie, si dovesse intravedere un mistero irraggiungibile (come cioè avviene con le persone in cui ci si imbatte negli incontri casuali della vita).
Ne La Ferrarina – Taverna, infatti, si avverte la volontà di sfatare col sorriso e col parossismo un’intera serie di miti falsi, da quello della presunta innocenza dei dissapori di coppia a quello della pretesa sincerità del personale dei ristoranti. A tutto ciò si aggiunge una sicurezza di linguaggio che fa delle sequenze dialogiche passaggi spediti e naturali. L’autrice privilegia i percorsi sintattici del parlato, specialmente per la signora Lide: più che sul dialetto, si può dire che la Valeri abbia scelto di lavorare sul “modus loquendi”, con risultati che evocano alla semplice lettura le cadenze sbarazzine dell’accento emiliano. Tra le righe si legge, nel testo di Franca Valeri, la confidenza di chi scrive per sé ciò che poi andrà a recitare – il difetto di simili spettacoli consiste nella difficoltà di immaginarli messi in scena da chiunque non sia colei o colui che li ha scritti.
Credo, in sintesi, che siano due le possibili chiavi di lettura di un testo come La Ferrarina – Taverna. La Ferrarina – Taverna è prima di tutto un esercizio. Ma in questo esercizio, nei personaggi sempre fedeli a loro stessi, nella trama costruita come un imbuto fino allo sfogo dell’epilogo, nei classici meccanismi del riso, nella contrapposizione di punti di vista e toni, si rivela l’arte dell’esercizio. La vis comica de La Ferrarina – Taverna sta nel creare nel lettore immedesimazione con la signora Lide a dispetto dell’implicita ironia di cui il personaggio è vittima. Il normale distacco ironico viene infatti vanificato dalle circostanze stranianti in cui la ristoratrice si trova ad agire – l’immotivato comportamento dei clienti – e dalla cui comprensione noi, al pari di lei, siamo esclusi. In questa identificazione senza alternativa giocano un ruolo molto importante i mezzi televisivi, che costringono, tramite slittamenti di ambientazione, a adeguarsi alla prospettiva della signora Lide.
La Ferrarina – Taverna può essere sì vista come un esercizio. Ma può anche essere vista come la beffa dell’esercizio, del meccanico, del posticcio. La Valeri caratterista non si prende gioco solo del “tipo” che il suo carattere esagera, ma anche del carattere stesso, inserendo il personaggio, comico e manieristico, in una situazione fuori dagli schemi, forse drammatica. Quest’arguzia, però, nelle sue ultime conseguenze, porta alla luce la meccanicità dei rapporti tra gli altri due protagonisti: non era forse il loro, quello che li ha ridotti al litigio pazzo, un amore meccanico e sterile? Allora il carattere, nella sua ingenuità, si dimostra il personaggio più sincero, e si ingrazia le simpatie del pubblico.
Elisa Ciofini