Il Verbo, Kaj Munk
(Cue Press, 2020 – Trad. Franco Perrelli)
«C’è un cadavere nella sala! Un cadavere nella sala!»: questa battuta, che da una parte anticipa lo svolgimento del dramma, dall’altra rimarca come il contesto dello spettacolo riguardi in realtà tutti i presenti a teatro, segna l’ingresso in scena di uno dei protagonisti di Ordet, der blev Daad (Il Verbo che si fece atto), passato al secolo come Ordet, ovvero Il Verbo (1925). L’autore, Kaj Munk, pastore protestante della parrocchia danese di Vedersø, proseguì la tradizione teatrale scandinava dell’Ottocento, senza tuttavia riscuotere in Italia tanta fortuna negli anni a venire quanta ne riscossero i suoi colleghi Ibsen e Strindberg.
Si aggiunga poi che fama del testo, il più significativo all’interno della sua produzione nonché l’unico tradotto finora nella nostra lingua, venne presto eclissata da quella dell’omonimo film di Dreyer. Al di là delle apparenze, Kaj Munk era ed è tuttora considerato una figura chiave nell’evoluzione della drammaturgia danese del secolo scorso, tanto da aver sfiorato, al suo tempo, il Nobel. Il Verbo in particolare trae esplicito nutrimento, oltre che dalle opinioni religiose di Kierkegaard, dal tema posto da Bjørnson al centro del suo Al di là delle forze: la natura del miracolo.
In linea con le previsioni del lettore minimamente informato sulla vita del drammaturgo, il pastore Munk scrive infatti un dramma di argomento religioso, ma innova il genere con un’intuizione moderna e sfacciata per la scena di Copenaghen degli inizi di quel secolo che per noi suona passato, ma che per i contemporanei significava l’arrivo di un futuro problematico. Munk decide infatti di mettere in atto, letteralmente e in tutti i sensi immaginabili, una risurrezione ambientata alla distanza di 1900 anni da quelle, a lei parallele, verificatesi per opera di Gesù secondo i Vangeli.
Al di là del bagaglio di minuziose e interessanti riflessioni teologiche che il testo implica e che non risparmia di trattare senza mezzi termini – essendo esse stesse il baricentro di quel mondo drammatico –, chiunque di qualsiasi pensiero o fede può apprezzare l’opera di Munk per lo meno al livello letterario e teatrale. Infatti, a partire dalla prima battuta del testo, Munk dà avvio a un esperimento che pone domande e non risposte. Si tratta infatti di un esperimento aperto, che ha per cavie non i personaggi del dramma, ma gli spettatori stessi, e che quindi non trova una conclusione e una soluzione preconfezionata entro i limiti narrativi stabiliti dal drammaturgo. Se una conclusione e una soluzione ci sono, queste sono lasciate a chi ha letto il testo o ha visto lo spettacolo: i protagonisti si limitano ciascuno a lanciare nell’aria sopra il palcoscenico e lasciare sospesi sopra le teste degli spettatori i propri modi di vedere Dio e il cristianesimo, forse tutti deviati.
In secondo luogo, Il Verbo gioca sul rapporto tra incredulità e religione, e non tra fede e religione. La storia narrata è la storia della fede in un’epoca, quella contemporanea, in cui in assenza di una fede ormai morta, esiste solo la religione, e la fede non si presenta se non come un miracolo essa stessa, un fatto eccezionale. Munk si costringe a un faccia a faccia con i propri dubbi, che sappiamo non essere pochi. Il Verbo ritrae infatti una famiglia in fuga da quell’inevitabile incontro-scontro con Dio che è la morte: la tenuta di Mikkel Borgen viene sconvolta dalla morte per parto della moglie del primogenito del vecchio proprietario, che si rialzerà dalla bara – per miracolo o, come insinuato dal dottore, per morte apparente – dopo la richiesta del secondogenito Johannes, studente di teologia permeato da una profonda convinzione religiosa, ma da tutti creduto pazzo, incarnazione cristica di quella fede che in un mondo senza fede è follia.
Che di morte fisica poi Munk voglia parlare, non è chiaro. Sembra invece che la morte che più a Munk interessa sia quella dello spirito – e forse in questo senso si potrebbe interpretare il “cadavere” che Johannes, come anticipato, vede ancor prima che l’azione principale inizi. La morte costringe sì a pensare a Dio, ma è piuttosto il pensiero di Dio che immette in quello della morte: per Munk, la fede infastidisce perché costringe a passare dalle parole ai fatti, costringe a cambiare, nonché ad accettare il più grande dei cambiamenti – quello dalla vita alla morte, appunto.
L’uomo non ha problemi a credere nel male, nella propria debolezza, nella propria mancanza di fede, perché ne ha tutti i giorni le prove sotto gli occhi. Quanto all’esistenza di Dio e alla vittoria della fede sulla debolezza, non esistono prove concrete se non problematici miracoli. Nessun adulto della famiglia Borgen eccetto Johannes crede nei miracoli, nessuno sembra volerne. Nemmeno il religiosissimo Mikkel Borgen, non a caso il più refrattario dei personaggi al cambiamento: Munk scorge nel miracolo qualcosa che scuote e incute paura, perché esso, nella sua concretezza, dimostra ai religiosi, che vivono solo di parole, che la fede è parola che non rimane tale, che al contrario si fa atto – perciò, per la nostra paura, non crediamo nemmeno quando vediamo.
Dio è questo per Munk: cambiamento, svolta, miracolo. Ma è il miracolo che fa la fede o la fede che fa il miracolo? Tra le due Il Verbo propone una via di mezzo. Sono gli uomini che impediscono i miracoli, ovvero sono loro a farli, quando li riconoscono. Non che gli uomini siano prodigiosi – la visione di Munk è teocentrica, non antropocentrica –, ma secondo l’autore la fede permette all’uomo di riconoscere in tutto il miracolo, e persino in quelle enormi lacune di non senso che rendono la religione un mistero non chiaro come può sembrare nella pura teoria.
Il “Verbo” del titolo, la “parola”, che come termine ricompare più e più volte nel copione in contesti diversi, con significati impliciti diversi, con diversi significati al contempo, è appunto questa: la Parola delle Scritture che si fa atto e miracolo. Parola o parabola – la materia stessa del racconto, del dramma di Munk, una parabola, in fin dei conti, è un miracolo. La fede di Munk non prende però le forme di un imperativo laconico, ma di un “può darsi”: il colpo vincente dell’autore è quello di fare letteralmente un miracolo, mettendolo in scena in quanto suo scrittore; un miracolo che però, nell’ambiguità della parola – anche quella dell’arte –, volutamente non azzera i dubbi di chi assiste alla sua manifestazione, e resta vero solo fintantoché il lettore non chiude il libro o lo spettatore non esce dalla sala del teatro.
Elisa Ciofini