“Sedici parole” per raccontare una doppia assenza

Sedici parole, Nava Ebrahimi
(Keller Editore, 2020 – Trad. Angela Lorenzini)

Sedici parole è la storia di Mona, ghostwriter sui trent’anni di stanza a Colonia in Germania, e del suo ritorno in Iran, Paese d’origine, a causa della morte inaspettata della sua “maman bozorg” (una delle sedici parole che significa “nonna” in persiano): sommersa dai ricordi, dagli amori sospesi e dai silenzi di un Iran inafferrabile e avvolto dai misteri, Mona, nonostante il desiderio di ritornare al più presto alle libertà della vita occidentale, deciderà di prolungare la sua permanenza oltre il rito funebre, e di intraprendere la rotta verso Bam, città antica resa spettrale da un terremoto che l’ha ridotta in macerie, accompagnata dai due vecchi amori Ramin e Siavash, il primo presente fisicamente, il secondo unicamente nei pensieri e nei ricordi, e dalla sua “maman“. Per Mona sarà solo l’inizio di una sorta di viaggio temporale alla scoperta di sé stessa e della propria identità.

«Avrei voluto proseguire all’infinito. Sempre avanti verso ovest, oltre l’aeroporto, nei territori curdi dell’Iran, nei territori curdi dell’Iraq, attraverso la Siria, e prima di fare un tuffo nel Mediterraneo, senza nient’altro che mentine nella pancia, avremmo forse avuto la rilevazione della nostra vita. In seguito non avrei mai più sperimentato con tanta urgenza il desiderio di non arrivare mai».

Attraverso sedici parole, una per ogni capitolo e strettamente legate alla cultura persiana, l’autrice iraniana Nava Ebrahimi, giornalista al suo esordio letterario, ci racconta di una “doppia assenza”, per dirla con Abdelmalek Sayad, ovvero di quella condizione (mentale ma anche e soprattutto materiale) vissuta dal migrante, il suo sentirsi costantemente “fuori luogo”, assente sia nella propria patria da cui rifugge continuamente, sia nella cosiddetta “società d’accoglienza”, nella quale è assimilato ed escluso al contempo. Il personaggio di Mona ha però la particolarità di rappresentare una generazione nata e cresciuta in un Paese orientale attraverso i valori occidentali diffusi da internet e dalle opportunità di mobilità, elementi su cui l’Iran in particolare ha mostrato una certa apertura negli ultimi anni rispetto ad altri Paesi mediorientali. Mona, al contrario degli altri personaggi del romanzo, quelli maschili in particolare, non rinnega infatti la sua cultura d’origine in funzione di quella occidentale, lei conosce profondamente i due mondi, ne è affascinata e continua dunque a vivere in equilibrio fra di essi, preferisce la doppia assenza all’illusione della presenza.

«Qui tutti cercano convulsamente di essere come gli occidentali. Ma in realtà non hanno idea di cosa significhi, hanno solo antenne satellitari e Mtv».

Le sedici parole che scandiscono il romanzo sono polisemiche, generano incomprensioni e spalancano abissi percettivi, come a voler dimostrare che il linguaggio non è altro che un mezzo che il potere invisibile del passato può usare per plasmare il presente a proprio piacimento. Ne è un esempio il “chub-e do sar gohi”, il “bastone sporco di feci da entrambi i lati”, l’immagine che Siavash utilizza per descrivere il popolo iraniano, e che nel capitolo successivo scopriremo essere sinonimo di “chub-e do sar taha”, ovvero il “bastone dorato in entrambi i lati”: quando Mona fa notare la contrapposizione di senso fra queste due immagini, Ramin le risponde che «molte volte, in realtà, è giusto così».

La scrittura di Ebrahimi, tradotta sapientemente in italiano da Angela Lorenzini, è sempre coesa e concreta, si nutre di sguardi, di silenzi e di gesti mancati, di descrizioni visive che trascinano costantemente il lettore da un mondo all’altro, da un concerto sfrenato degli Arcade Fire a Colonia a una serata di inibizioni in macchina con l’amante sotto gli occhi vigili della polizia morale che sorveglia le strade di Teheran. Colpisce la capacità di dare vita a personaggi dal profilo psicologico ben definito attraverso dialoghi realisti che sanno lasciare spazio al non detto, soggetti imperfetti e portatori di ferite che non hanno coscienza di nulla se non della propria esistenza.

«Forse la vita è un bambino che torna da scuola».

Il viaggio porterà Mona alla consapevolezza che Occidente e Oriente sono due facce della stessa medaglia, l’uno la proiezione dell’altro, e che non esiste un’identità ma diverse identità, mutevoli e sfuggenti, liquide come le società in cui viviamo.

Emmanuel Di Tommaso

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