Mascaró, di Haroldo Conti
(Exorma, 2020 – trad. di M. Magliani)
«L’arte è la gioia più intensa che un uomo può procurarsi. Non l’hai visto oggi? Non hai sentito che quello è il modo più dolce e gioioso di stare a questo mondo?»
Questa citazione descrive alla perfezione lo spirito di Mascaró, romanzo di Haroldo Conti pubblicato in Italia da Exorma, nel 2020. Leggerlo equivale infatti a provare la stessa gioia di vivere che animava il suo autore. Come ci racconta Márquez nella prefazione, Conti «non si vergognava affatto del grande amore che aveva per la vita» e non faceva mistero delle sue opinioni politiche, ma anzi si dichiarava pubblicamente a favore della rivoluzione cubana. A dimostrare la sua fermezza d’animo, un cartello posizionato sulla scrivania: “Questo è il mio posto di combattimento e da qui non me ne vado”. La notte del 4 maggio 1976 fu picchiato e sequestrato da sei civili armati; dopo aver stremato a calci sia lui che la moglie Marta, gli inquisitori lo portarono via, e per diversi anni non si seppe più nulla di lui. Alcuni scrittori argentini, tra cui Márquez, cercarono a più riprese di avere notizie dell’amico scomparso, ma solo nel 1980 il generale Videla dichiarò che Conti era morto, senza dare ulteriori dettagli.
Mascaró racchiude in sé i due aspetti della vita dello scrittore: la prima parte, Il circo, è pervasa da un grande senso di libertà e speranza, mentre la seconda, La guerriglia, lascia intravedere la figura oscura dei rurales, la guardia armata che minaccia di porre fine alle avventure dei protagonisti.
Tutto inizia con Oreste, un uomo senza ricordi. Per lui «non c’è storia né passato, solo la notte, la pienezza del tempo dove l’uomo ritrova il suo centro». Lo incontriamo per la prima volta nella città di Arenales, all’alba, mentre ascolta le ultime note trasandate dell’orchestra del paese. Ogni cosa sembra avere il carattere del sogno, e il lettore viene subito travolto da una miriade di strani personaggi che appaiono e scompaiono sulla scena, come Cafuné, che suona un flauto d’osso pedalando avanti e indietro lungo il molo, o l’arpista cieco che «vede le cose dal di dentro, senza la zavorra della carne».
In questa atmosfera onirica, Oreste aspetta di imbarcarsi sul Mañana, il battello dal nome evocativo che lo porterà lontano, permettendogli di trovare la propria strada. Insieme a lui partiranno anche il Principe Patagón («poeta, attore, scrittore, mago e indovino certificato», anche se, secondo Oreste, «sembra solo un figlio di puttana di gran classe») e Mascaró, un cavaliere oscuro con gli occhi di brace. Durante il viaggio in mare nascerà l’idea di fondare un circo, anche se si concretizzerà soltanto dopo lo sbarco nella città di Palmares. Una volta scesi dalla nave, Mascaró si dileguerà momentaneamente, mentre il Principe e Oreste, insieme ad altri bizzarri personaggi, daranno vita al gran Circo dell’Arca. Muniti solo di un vecchio carrozzone e qualche metro di tendone – e accompagnati da Budinetto, un vecchio leone senza denti – i membri di questa strampalata compagnia metteranno in scena numeri di magia, canto e acrobazia, ma soprattutto insegneranno ai propri spettatori cosa vuol dire essere liberi.
Nella seconda parte del romanzo, pur non essendoci particolari svolte a livello di trama, l’atmosfera cambia in maniera sottile ma progressiva. La narrazione continua a seguire il viaggio degli artisti di strada e le loro mirabolanti esibizioni; la fama del circo comincia a precedere i suoi membri ovunque vadano, perché in ogni luogo che hanno attraversato è accaduta una magia: la gente ha iniziato a fare la rivoluzione. Per questo, i rurales inseguono il Principe e la sua compagnia, radendo al suolo paesi e torturandone gli abitanti. Tutto questo giunge alle orecchie dei protagonisti come un eco lontano, qualcosa che non sembra scalfire la loro voglia di libertà; eppure c’è un senso vago di minaccia, riflesso nei volti delle persone che incontrano lungo la strada e nel paesaggio circostante, sempre più spoglio e inospitale.
Leggere Mascaró è un’esperienza fantastica e confusa, come assistere a un miraggio nel deserto. Spesso si ha la sensazione di venire risucchiati in un sogno, pieno di luoghi indefiniti e figure senza un’identità fissa, che evolvono a una velocità tale da impedire al lettore di mettere a fuoco la vicenda. Ogni personaggio subisce una metamorfosi, come Oreste, per esempio, che scopre il suo talento per il trasformismo, oppure la signora Maruca, che da vedova pudica e dimessa diventa una danzatrice del ventre con arti divinatorie; o ancora il Nuño, il cuoco del Mañana che si riscopre un talento nel canto lirico. E infine c’è Mascaró, alias Joselito Bembé, il cacciatore di uomini che non è né buono né cattivo, perché, come dice il Principe, «dipende da come lo si guarda». Allo stesso modo, il libro può essere qualsiasi cosa. Lo si può amare per le dettagliate descrizioni dei numeri circensi e rimanere incantati a immaginare il paesaggio fatto di dune, oppure ci si può sentire totalmente disorientati, incapaci di comprendere ciò che sta accadendo.
La scrittura di Conti contribuisce ad amplificare questo effetto di straniamento. I dialoghi sono surreali e pittoreschi (come quello che ruota attorno all’enumerazione dei benefici della tintura d’aglio), il tempo verbale cambia dal passato remoto al presente nello spazio di un paragrafo, dando l’impressione che tutto stia accadendo simultaneamente, ma in un momento molto lontano. La narrazione procede alternando descrizioni lunghe e articolate, interrotte bruscamente dalle azioni dei personaggi, che sono invece raccontate spesso in maniera stringata, con delle brevi didascalie, come in un copione teatrale. Grazie a questi espedienti, il romanzo si trasforma in una performance continua, che si dispiega davanti agli occhi meravigliati (e a volte perplessi) del lettore.
La vera protagonista del libro è comunque l’arte stessa, quella sublime perfezione che «con la sola forza dello spirito […] unisce e miscela qualunque portento, incanto o chimera vagante in questo mondo», e che spinge l’uomo ad essere migliore e a lottare per quello in cui crede. Attraverso le figure del Principe e di Mascaró, Conti ci mostra che l’arte è libertà e gioia, ma anche lotta e rivoluzione.
Il Circo dell’Arca finisce per essere una vera a propria filosofia di vita. Come dice il Principe stesso: «Il circo è meraviglia. Quando funziona non è più lo stesso. La sua essenza sta nell’immediato, nella pura improvvisazione. Quella è la sua magia. E allora non importa se funzioni bene o molto bene o benissimo». Così è anche la scrittura di Conti: improvvisa e spettacolare. E quindi poco importa che funzioni, l’importante è che sia, proprio come il circo – che per i suoi artisti è, anche se di dubbia consistenza.
Francesca Rossi