La saga di Vigdis, Sigrid Undset
(Utopia, 2021 – Trad. M. Podestà Heir)
Scritto nel 1909, La saga di Vigdis è il primo romanzo storico di Sigrid Undset, classe 1882 e premio Nobel per la letteratura nel 1928, portata alla fama internazionale anche grazie alla saga di Kristin Lavransdatter. L’autrice, figlia di un archeologo medievista, si scopre da sempre interessata alla cosiddetta Era delle Saghe Scandinava e alle opere epiche ambientate in Islanda tra il IX e l’XI secolo, che inizialmente venivano trasmesse oralmente e registrate con la scrittura a partire dal Duecento.
Ai margini dell’era pagana nelle terre estreme del nord Europa, tra la fine del X secolo e l’inizio dell’XI, vive Vigdis, figlia di Gunnar, capo di un ricco clan norvegese.
Durante una spedizione a fini commerciali, l’islandese Viga-Ljot viene ospitato da Gunnar. Tra Vigdis e il giovane sembra amore a prima vista. Quando però la ragazza viene a conoscenza delle canzoni disonorevoli messe in giro da Ljot sul suo conto, lei cerca di allontanarlo. È a questo punto che Ljot abusa di lei.
Lo stupro da cui Vigdis non guarirà mai diventa il punto focale di tutto l’impianto narrativo successivo.
Il parto che ne consegue, infatti, le causerà il disonore, inevitabile in una società patriarcale medievale: gli uomini del circondario ora si sentono liberi di parlare di lei come di un mero oggetto sessuale. Gunnar viene ucciso mentre cerca di difenderla dall’ennesimo affronto e, come la Crimilde nella saga dei Nibelunghi, il racconto verte sul tema della vendetta e dell’onore riscattato, trasformando Vigdis in una furia vendicatrice.
Datasi alla fuga, Vigdis incontra re Olav I che, unico elemento storico che consente di porre la narrazione in un lasso temporale determinato, la aiuterà a riavere i suoi possedimenti. In molti uomini le chiederanno di essere loro, ma Vigdis non acconsentirà mai, tenendo troppo alla sua indipendenza ottenuta con la lotta. Riscattata la fattoria paterna, l’obiettivo non può che essere vendicarsi di Ljot. Sono passati anni quando i due si incontrano nuovamente e Ljot continua a non pentirsi della violenza che commise ai danni di Vigdis. Dal canto suo, la donna affida al loro figlio la consumazione della tanto cercata vendetta.
Il taglio epico che la Undset ha voluto impiegare in questo romanzo si nota dalle prime righe. Le brevissime frasi di cui è composto riflettono non solo il gusto stilistico narrativo iperboreo, ma anche la semplicità epitetica composta da immagini sovrapposte fino al contrasto, che si ritrova nell’epos omerico. Il ritmo delle frasi paratattiche riproduce l’andatura cantilenante dei versi, seppur sia usata la prosa tipica delle saghe islandesi e della letteratura moderna. La prosa è scarna anche dal punto di vista delle descrizioni. La neve, il freddo, i boschi norreni sono abbozzati e vengono usati esclusivamente in funzione di sfondo all’intreccio narrativo. La natura non è né madre né matrigna, semplicemente è, come potrebbe essere in una classica opera epico-mitologica.
Anche per quanto riguarda la caratterizzazione dei personaggi lo stile usato dalla Undset si avvicina all’essenzialità spesso bidimensionale omerica, per cui ogni interiorità viene ridotta a pochi tratti fissi nel tempo, cristallizzata sulla prima descrizione della persona a cui appartiene, come se la condizione di vita umana nel gelo quasi perenne delle terre del nord Europa si riflettesse in una immobilità del sentire, contrapposta a una forte mobilità fisica dei personaggi.
Per quanto concerne le tematiche, se, almeno per la prima metà del libro, Vigdis è presentata come vittima che riesce a trasformare il suo dolore in azione, presto si configura nella figura della donna che non ha saputo (né voluto) perdonare. Il tema dell’onore e della vendetta, nonotante abbia in Vigdis il riflettore principale, viene affrontato da una pluralità di punti di vista. Per esempio, Vigdis è per il proprio figlio ancora colpevole, perché non ha cristianamente assolto il suo carnefice, lasciandosi sopraffare dai sentimenti propri del paganesimo quale – appunto – l’onore e la vendetta. Se la donna è giudicata per essere stata troppo attaccata al suo dolore, incapace di ri-amare l’uomo che l’ha violentata e, per questo, abbandonata dalla società, è invece così che Ljot viene giustificato e presentato con pietà, perché il suo gesto giovanile è stato dettato dal “troppo amore” – punto di vista inaccettabile, agli occhi dei lettori del XXI secolo.
A questo proposito, inizialmente La saga di Vigdis sembra porsi vicino ad un manifesto femminista, per diverse ragioni: la scelta di dedicare una saga ad una donna, il dare voce ad una persona che, al tempo in cui è ambientata la narrazione, non l’avrebbe mai avuta, l’investitura della protagonista che diventa vendicatrice di sé stessa e dei suoi cari, rifiutandosi di restare nel ruolo a cui era stata destinata. Il romanzo in generale, però, problematizza il tema dell’emancipazione femminile secondo il vero giudizio di Undset, che, a tratti femminista, a tratti antifemminista, spesso si era scontrata con i femministi norvegesi dell’epoca. L’autrice non credeva pienamente in un ruolo femminile che si opponesse alla società maschile, bensì rimaneva, per certi aspetti, ancora ancorata all’interpretazione del ruolo della donna come nutrice e casalinga, all’interno del sistema patriarcale.
E se già trent’anni prima della composizione della Saga di Vigdis, un altro scrittore norvegese, Ibsen si era fatto portavoce di una donna che sceglie di non sottostare alle imposizioni del marito (Casa di bambola, 1879), considerando l’avanguardia delle idee di Ibsen e degli altri componenti del gruppo “Big Four” (scrittori norvegesi dediti a sostenere la causa femminista in letteratura), l’opera di Undset ci pare ancora più distante dagli ideali progressisti del tempo e, di certo, non sembra iniziatrice di una letteratura in cui le protagoniste riescono finalmente a essere donne emancipate. Il fatto che anche il figlio che Vigdis crebbe da sola si riveli immerso nella logica maschile e maschilista del tempo al punto da non supportare né comprendere la madre, sembra consegnare definitivamente la protagonista della Saga di Vigdis alle logiche maschiliste e conservatrici, senza possibilità di riscatto personale autentico né riconoscimento sociale paritario.
La saga di Vigdis sarebbe piuttosto, quindi, un manifesto della libertà individuale in generale, in cui la volontà e la capacità di fare delle scelte inconsuete per l’epoca erano necessarie per formarsi una propria vita autonoma. Forse è questo l’aspetto primario che Undset stessa ha voluto declinare nel suo romanzo, prescindendo dalle implicazioni sessiste e dalla decostruzione della società patriarcale che racconta. Un manifesto di cui, attraverso il suo percorso di vita non lineare e le sue scelte talvolta controcorrente, Undset dimostra essere in primis la fautrice.
Eleonora Mander