Il richiamo di Alma, ovvero il fascino dell’irraggiungibile

Il richiamo di Alma, Stelio Mattioni
(Cliquot, 2020)

almaDopo aver letto Il richiamo di Alma, e tenendo sottomano una delle tante foto che si trovano di Stelio Mattioni, si potrebbe immaginare l’autore, il suo personaggio distinto, la testa rilevata al di sopra di un paio di spalle in giacca e cravatta, i capelli all’indietro, il sorriso curvo in un orlo appena spiovente, impegnarsi in precisi vagabondaggi tra vicoli, fessure, scorci della sua città. Senza fretta misurare i passi, blocchetto e pennino in tasca, tra il capo e la coda di una via, contare i gradoni dalla base alla cima di una scala, percorrere una e più volte con la mente i dettagli della vera protagonista del romanzo, Trieste. Eppure, si tratterebbe solo di un’impressione.

Perché dell’ambiente triestino Mattioni non si limitò a inserire nel suo romanzo una costante presenza di fondo, ma anche quel fascino tutto letterario fatto di onirismo e d’inconscio da cui lui stesso, per eredità sveviana e mitteleuropea, era attratto: se mi recassi sul luogo, probabilmente troverei una Trieste diversa dalla città interiore che da forestiera ho visitato nel libro. Come una buona parte di quelle narrazioni-sogno che nulla sovvertono dell’ordinario, ma che in punta di piedi lo trasfigurano per rivelarne ogni aspetto nascosto, Il richiamo di Alma, scritto nel 1980, è un Bildungsroman dove la metafora narrata dà voce all’esperienza di vita di ogni singolo lettore. E quale categoria sociale si nutre dell’ordinario più che la borghesia?

Il protagonista, voce narrante del romanzo, possiede quante prerogative sono necessarie per farne parte: universitario con poco interesse per lo studio, ha una vita agiata, un carattere dimesso, disposto alla mediocrità per le esigenze dei parenti e del costume; per di più, è terzogenito di una famiglia votata alle apparenze, con un padre industriale, una madre possessiva o indisposta a fasi alterne, e due fratelli ingombranti. Tutto questo finché un giorno non entra nella sua esistenza, a sconvolgerne qualsiasi routine, una figura dai contorni sfumati, che il protagonista, tanto propenso alle fantasticherie da non dubitare della continuità tra di esse e il reale, sente quasi subito di poter chiamare Alma.

Alma, ragazza multiforme, insondabile, imprendibile, gli si paleserà una prima volta sulla Scala dei Giganti, e mille altre in mille altri angoli della Trieste di Mattioni. Invaghitosi più che della figura in sé, dei messaggi insieme di attrazione e repulsione che essa sembra inviargli, non potrà far altro che cercarla per perderla ogni volta, indagare la sua identità per vedersela ogni volta scivolare via dalle mani, a un soffio dalla presa. Il romanzo inscena la naturale irruzione, nella monotonia della vita di un giovane, di una vita diversa, che chiede di essere vissuta – il “richiamo” di Alma. E questo avvento si realizza con l’insinuarsi dell’insolito, dell’ignoto, del fantastico, nelle crepe sfuggite al solito e al noto.

Ma per raggiungere l’indipendenza e poter seguire il proprio istinto sarebbe necessario distaccarsi dagli obblighi familiari e dall’abitudine. La famiglia opprimente del protagonista, che a sua volta si lascia condizionare senza eccessive proteste, si identifica qui in quel mondo e in quel sistema di pensiero che si è costretti ad accettare quando si desidera un’esistenza comoda e senza troppi scossoni. Il romanzo oscilla continuamente tra i due poli di realtà ed evasione, con spostamenti tanto rapidi e impercettibili da confondere i due piani: quale dei due ha più concretezza, più diritto ad avere la meglio sull’altro? È forse la nostra un’esistenza rubata al sogno?

Se si considera che in aggiunta Alma appare ogni volta diversa da come è apparsa la precedente, sembra più che legittimo domandarsi, da lettori, al pari del protagonista, chi essa sia. Se questa ragazza misteriosa sia la realizzazione di una storia d’amore giovanile, se sia immagine della vita, se sia simbolo dell’amore quasi religioso per la vita in tutti i suoi aspetti, o metafora per la mutevolezza della vita, specchio dell’identità (l’anima, l’alma) del ragazzo che la cerca – che cerca se stesso. O, ancora, se sia incarnazione di Trieste, e se quindi Trieste sia tutto ciò che è Alma, mutevole e magica.

La figura di Alma corrisponde al modello di donna angelo della poesia medievale stilnovistica, irraggiungibile nella sua perfezione di idea platonica, ispirazione per chi la ama. È innanzitutto una guida che non si può non seguire. Alma conduce il protagonista lungo un percorso labirintico nei meandri di una Trieste atlante dello spirito. Quale sia la meta ultima di questo viaggio della vita, non è dato sapere se non al termine del viaggio; ma la fine potrebbe anche non concedere risposte, né rivelare se si sia raggiunto la meta ultima o meno, se il viaggio abbia avuto successo o no: in Alma leggiamo così l’impenetrabilità del mistero della vita.

Ciò che tuttavia difficilmente si spiega sono le motivazioni che il narratore stesso, anche a distanza di anni, individua alla base della sua ricerca della ragazza. Per quanto poco chiare, queste si sintetizzano in due obiettivi essenziali: chiedere a Alma chi sia e rivelare a Alma i propri sentimenti. Quali sono i suoi sentimenti? Anche questo poco chiaro. Ma si tratta in entrambi i casi di tappe, e ne resta in ogni caso sconosciuto lo scopo. Certo, il protagonista investe la propria vicenda del valore di un monito, la considera indispensabile per la propria esperienza, e se ne sente interessato in prima persona. Io credo però che ci sia dell’altro.

Mattioni, delegando al proprio protagonista e alla sua prospettiva inevitabilmente inaffidabile la conduzione del romanzo, dissimula con una voluta stonatura del meccanismo narrativo la domanda che al lettore passa solo in sordina: al ragazzo importa poi davvero sapere chi sia Alma, o chiarire i propri sentimenti nei suoi confronti? O piuttosto, preferisce prolungare il gioco del gatto e del topo – lui gatto e topo insieme – con lo spettro delle proprie fantasie, dei propri desideri e sogni, della propria identità in formazione, del proprio destino? Nella consapevolezza di non poter ricevere risposte, dopo un’infinità di tentativi, chiunque getterebbe la spugna. Ciò che trattiene il narratore dal farlo è il divertimento dell’equilibrista sul filo che divide la sconfitta dal successo – perdere quando si è stati a un passo dalla vittoria ha un sapore speciale, la scommessa dello “stare quasi per”, il brivido in quel “quasi” che è il gusto più intimo della vita.

Elisa Ciofini

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