Franco Loi è stato di certo uno dei poeti più importanti e conosciuti della sua generazione. Una generazione che ha forse perso con lui l’ultimo caposaldo. L’aria delle sue poesie è già storica.
In una delle sue ultime interviste, Loi racconta di come il ritmo e il suono della poesia possano sommuovere l’uomo. Non è solo il significato delle parole, quindi. Esiste un altro piano poetico: quello sonoro, quello del modo in cui il messaggio viene offerto.
Loi è nato a Genova, ma è un milanese d’adozione. In questo breve articolo che cerca di cogliere parte della sua poetica non mi soffermerò sul lato biografico. È tuttavia utile ai fini di questa analisi il passaggio da Genova a Milano, poiché il Loi poeta scriverà esclusivamente in milanese, rendendola la lingua della propria parola. Qui mi ricollego all’importanza del suono per Loi. La sua, oltre ad essere stata molto probabilmente una scelta dovuta all’affetto per la città e la sua cultura – oltre che politica, volendo rappresentare la “gente” nella forma più limpida – rimane, comunque, una scelta tecnica. Il ritmo e la sonorità del milanese hanno portato Loi all’idea che quel dialetto fosse la voce giusta per il proprio pensiero.
Nella stessa intervista sopracitata, Loi focalizzava gran parte della produzione poetica nella sfera dell’intuizione. Diceva: «l’intuizione è la forma pura della conoscenza», citando a sua volta Albert Einstein nella celebre frase per cui anche le più importanti scoperte scientifiche derivano da intuizioni e raramente da procedimenti razionali e logici. La verità per Loi esiste all’interno dell’uomo stesso; e questo pensiero si riflette nelle sue parole scritte. Gli oggetti, ma le persone soprattutto, “vagano col vento” in cerca del proprio spazio, che probabilmente non sarà mai dato.
«[…] e che paura el vîv! quèl gran de fà/ del vent ne la citâ sensa memoria, […]
e vègn paüra de restà, de ‘ndà.»
«[…] che paura il vivere! Quel gran daffare/ del vento nella città senza memoria […]
e viene paura di rimanere, di andare.»
Un’ulteriore frase celebre di Loi, tra le altre, era questa: «mi sono sempre considerato amanuense di Qualcuno», riferendosi alla propria produzione poetica. Ecco, Loi è un poeta dell’inconscio; un neo-romantico, probabilmente, che ricorda la figura del poeta dell’età dell’innocenza di William Blake. La poesia di Loi nasce dall’inconscio, dal “non pensato”, e proprio per questo, come spiega lui, permette di imparare qualcosa di se stessi. Non è una creazione razionale. È un muoversi di pensieri interiori, incapibili, che in un momento di epifania producono una verità. La poesia quindi, per Loi, non è una costruzione letteraria, ma l’espressione di se stessi e, oltretutto, un momento di contatto con Dio.
La produzione di Loi è vasta. Il poeta genoano cominciò a scrivere nel 1965 circa, ovvero a trentacinque anni, ed esordisce nel 1973 con la raccolta I cart, pubblicata da Edizione Trentadue a Milano. Poi pubblica nel 1974 Poesie d’amore per Il Ponte e l’anno successivo il poema Stròlegh. Nel 2005 Einaudi pubblica Aria de la memoria, libro dove vengono raccolte poesie scelte dalle numerose produzioni di Loi tra il 1973 e il 2002.
Aria de la memoria è un titolo particolarmente evocativo e permette di riflettere sulle tematiche toccate da Loi. Prendendo come punti di riferimento queste due parole – “aria” e “memoria” -, ci si accorge di come la poesia di Loi è presente in un tempo e in un luogo, ma contemporaneamente svaria, tra passato, presente e futuro, in un compenetrarsi di nostalgia e speranza. Il passato – come l’infanzia – è molto spesso il tempo ideale per lo smarrimento. Essere leggeri come l’aria, in effetti, è piacevole durante la fase della vita che non necessita di un’identità e quindi non la pretende nemmeno. Quando, invece, l’io poetico – Loi è intriso di lirismo – si affaccia all’età post-adolescenziale o adulta, lo smarrimento è maggiormente presente. È visibile quindi una disparità tra stile e pensiero: il primo rimane su un piano metaforico, leggero e aeriforme, appunto; l’altro, il pensiero, tende a non trovarsi, a non capire l’esistenza di alcune certezze, come la perdita e l’abbandono, simulacri della morte.
«[…] luntan mí me purtàss d’una matina, me vègn de piang d’un piang che me sladina…/
Oh pader, ch’a parlà mai te scultavi,/ che nustalgia de tí porta la vita!»
«[…] lontano tu mi portassi di una mattina,/ mi viene da piangere, d’un pianto che mi scioglie…/Oh padre, che a parlare mai ti ascoltavo,/ che nostalgia di te porta la vita!»
Spesso, soprattutto nei primi libri come I cart e L’aria, è percepibile un io poetico che è costretto a fare i conti col passato, in particolare con la perdita dei genitori (o delle loro figure) e con l’ingresso nell’età adulta, che necessita inevitabilmente di una solidità inaccettabile. Successivamente, nelle raccolte Amur del temp, ma ancora di più in Stròlegh, Teater e L’Angel, la voce rimane slegata da una realtà linguistica, ma diventa spesso raffigurazione di eventi storici (si veda la poesia IX, … piassa Luret, nella raccolta Stròlegh). La verità che si rivela sempre di più è quella dell’esistenza del male, e che il male esista sotto ogni forma e in ogni uomo, slegato da credenze religiose e/o politiche. Nonostante ciò, Loi non raggiunge mai la disillusione. Nella sua poesia, ancora di più crescendo, paradossalmente, permane sempre un’idea di bellezza del mondo e della natura in generale, la quale non viene mai scalfita dalle numerose malvagità dell’essere umano.
Il linguaggio di Loi è colmo di fonosimbolismi. Nella libertà che Loi ha acquisito con il dialetto milanese, il gioco della parola si fa sempre più sottile e aperto con il passare degli anni. Il linguaggio si arricchisce di una sostanza giocosa e incorrotta. Un’attenzione profonda è dedicata alla bellezza della parola. Come detto all’inizio di questo articolo, la parola – intesa soprattutto come suono – non è semplicemente uno strumento che veicola un messaggio; al contrario, per Loi può essere essa stessa il significato. Esiste nei testi di Loi una forte estetica della parola e della lingua, che in alcuni componimenti può essere l’assoluta protagonista. Sotto questo aspetto ricorda alcuni poeti americani della Beat Generation, Allen Ginsberg fra tutti.
Si potrebbe dire, infine, che Loi è un poeta dell’aria. Con ciò s’intende che la sua poesia, anche sul piano linguistico, tende ad attraversare ogni forma e tempo dell’essere umano. Non necessita di alcuna stabilità a priori, tantomeno di una stabilità linguistica. È una poesia fluida.
«[…] se scriv perchè la vita la sia vera,/ quajcòss che gh’era, gh’è, forsi gh’è pü.»
«[…] si scrive perché la vita sia più vera,/ qualcosa che c’era, c’è, forse non c’è più.»
Vittorio Parpaglioni
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