Nella Lettre à Monsieur Chavet, Alessandro Manzoni espone una delle caratteristiche della sua poetica che più hanno perseguitato gli studenti italiani. Convinto che sia lo storico che il poeta debbano attenersi alla realtà dei fatti, Manzoni distingue comunque, ricalcando le eterne coppie di razionale e sentimentale, scientifico e umanistico, apollineo e dionisiaco.
Se lo storico, infatti, ha cura di riportare una catena di cause ed effetti che descrivono fatti e personaggi storici nella loro esteriorità, il materiale del poeta è invece l’interiore, i pensieri e gli stati d’animo dei protagonisti della storia. Il componimento Cinque maggio non è l’unico esempio di questa pratica: lo è anche l’opera narrativa, non solo dell’autore in questione, ma del romanzo ottocentesco in genere, con la sua attenzione simultaneamente al reale e allo psichico. Se questi principi valgono per personaggi come Napoleone, che nell’immaginario sono storici prima ancora che umani o politici, che applicazione possono avere per quelli la cui storicità è scivolata in secondo piano, messa in ombra da altre componenti come quella teologica?
Mi riferisco, come da titolo, a Ponzio Pilato, il cui ruolo di prefetto della Giudea è da sempre legato a doppia mandata alla Passione di Cristo e la cui personalità storica si è dissolta nel mare della fede che lo vuole alternativamente martire e vile perseguitatore. In questo senso, i precetti della poetica manzoniana sembrano essere stati rispettati a pieno dalla letteratura del secolo scorso. Molti scrittori, ponendo al centro della narrazione proprio la figura di Ponzio Pilato ed ergendolo spesso a protagonista, hanno assunto a Storia un misto di leggendario racconto biblico e verità storiografica, delineandovi sopra e attraverso una Poesia che descrivesse o immaginasse il Ponzio Pilato uomo.
Proprio sul Ponzio Pilato uomo si concentra l’opera che apre il secolo letterario sul prefetto di Giudea. Nel 1902, il futuro premio Nobel Anatole France pubblica un racconto di circa trenta pagine dal didascalico titolo: Il procuratore della Giudea, recuperato nel 1980 da Sellerio con una traduzione di Leonardo Sciascia. Al suo interno un anziano Ponzio Pilato ricorda i tempi andati chiacchierando con il patrizio Elio Lamia.
Nel tratteggiare la figura di Pilato, Anatole France sembra omettere di proposito, salvo rarissimi accenni, la portata teologica che il personaggio ha avuto, quasi a volerne rivalutare quella storica, attingendo a piene mani agli Annali di Tacito, la più grande fonte in nostro posseso sull’argomento. Ne viene fuori il ritratto della vita di un uomo politico, la cui proverbiale viltà non è che una virgola in mezzo a turbolente e complesse questioni da affrontare in una terra per nulla amata. Emerge invece il Pilato scettico e dubbioso, a tratti ignaro, connotato soprattutto da un peculiare razionalismo romano.
Due guerre mondiali più tardi un altro scrittore francese torna a battere su questo razionalismo scettico. In Ponzio Pilato (1963) di Roger Callois, il prefetto romano sembra quasi un positivista o un illuminista ante litteram. Derisorio e sprezzante di tutto ciò che è sacro e spirituale, Ponzio Pilato viene definito un «ottimista per pigrizia» (p. 12), al sicuro dietro alla fiducia nell’utile di Roma e della sua cultura. Ben presto, però, quest’uomo mediocre dovrà fare i conti con la potenza del destino, che a detta di Giuda, lo vuole vile, incastrato in un disegno teologico e teleologico che erge la sua viltà ad adempimento divino.
Il Ponzio Pilato di Callois si ritrova costretto a scontrarsi con la mancata assolutezza della ragione, con il recupero dell’irrazionalità al servizio di una causa più grande, con il disordine necessario all’ordine futuro, con il dover adempiere al male per poter realizzare il bene. È ironico che proprio il suo gesto, questa antitesi indispensabile, contribuirà poi alla solidità futura di un nuovo assoluto dogmatico, quello del cristianesimo secolarizzato. Callois sembra infatti suggerirci che il divenire uomo nuovo è un meccanismo perpetuo e inarrestabile. A ogni presa di coscienza del proprio ruolo nella totalità necessaria del reale segue sempre un nuovo dominio del dogma, sia esso la fede o la ragione. Ponzio Pilato diviene così non tanto l’archetipo del vile, quanto quello del gregario in crisi d’identità, che assiste al crollare di una razionalità imposta. In questo senso Callois ha il coraggio di usare il revisionismo come strumento per dirci che se non si svolge il proprio ruolo si nuoce al progetto totale. È proprio il coraggio ciò che, con coraggio, Pilato deve sconfiggere. La viltà è invece la sua vera virtù.
Tuttavia, negli anni ’60 del secolo scorso non è stata soltanto la narrativa a recuperare la figura di Ponzio Pilato. Hannah Arendt, nella sua celebre corrispondenza sul processo Eichmann, divenuta quel capolavoro storico e teorico che è La Banalità del male, sovrappone storia a storia accoppiando l’immagine di Ponzio Pilato a quella del criminale nazista. Certo, il parallelismo lo offre lo stesso Eichmann, quando, parlando della Conferenza di Wannsee, quella in cui si stabilì la Soluzione Finale, dichiara di essersi sentito «Una specie di Ponzio Pilato […] libero da ogni colpa» (p. 122).
Nel corso di tutto il processo, perseguendo il vano tentativo di difendersi di fronte alla corte israeliana, il funzionario nazista cerca di dipingersi come un mero esecutore di un piano più grande di lui, al quale non solo non poteva opporsi, ma non aveva alcun senso che lo facesse. Tuttavia, non è al ruolo ricoperto all’interno di un disegno più ampio che fa accenno il richiamo alla figura di Ponzio Pilato, ma alla necessità di giustificazione e assoluzione. Adolf Eichmann non richiama il nome del nostro procuratore per dipingersi come un vile. Neanche Arendt intende perpetuare il luogo comune per cui il prefetto non è stato altro che il più celebre vigliacco di tutti i tempi. L’immagine che serve ad Eichmann è quella di un assolto più che di un vile. Nella Palestina dell’anno zero, come nella Germania nazista, l’assoluzione viene spesso da un gruppo forte e quanto più unanime possibile. Nel Vangelo di Matteo è scritto che Pilato dichiarò, dopo essersene lavato le mani: «Non sono responsabile per questo sangue. Pensateci voi!» (Mt 27, 1-56). Eichmann, Pilato moderno, non ebbe bisogno di gesti o frasi, gli bastò constatare che tutti i gerarchi presenti, i più importanti del regime, concordassero sulla Soluzione scelta, rendendogli di fatto impossibile risultare vile. La sua opinione non aveva più senso di esistere e un nuovo dogma a cui aderire era pronto e disponibile ad essere osservato.
Infine, non si può indagare l’immagine di Ponzio Pilato nella letteratura del ‘900 senza prendere in considerazione il romanzo più importante in materia. È così importante da essere tenuto al sicuro all’interno di un altro romanzo. L’autore è il Maestro de Il maestro e Margherita di Michail Bulgakov e lo si può leggere connettendo i capitoli sparsi nel corso della narrazione esteriore, ambientata nella Russia sovietica. Attraverso il racconto di Woland e nel corso di una narrazione parallela a quella contemporanea, Bulgakov descrive il Ponzio Pilato più umano fra quelli citati. Sulle prime il procuratore si crogiola nella sua fama di uomo feroce, fa frustrare Ha-Norzi e pretende che lo si chiami egemone. Lo scrittore russo sembra affidarsi quindi più alla storiografica immagine di un prefetto senza scrupoli che a quella evangelica di un uomo attraversato da dubbi e crisi di coscienza.
Tuttavia, nel frattempo Bulgakov ha cura di descrivere un Ponzio Pilato quanto più possibile in carne e ossa, lontano dall’asettica astrazione del personaggio storico. Per questo motivo entra in scena sin da subito con l’emicrania, disturbo che può competere soltanto con il mal di pancia per il titolo di perfetto catalizzatore di umanità e umanizzazione.
Ma questa umanità che il Pilato di Bulgakov possiede sin da subito in superficie, lo scrittore la inserisce poco a poco anche nel profondo. Quando riprende il racconto del procuratore, dopo che questi ha condannato il filosofo e ha tentato di salvare Giuda, ci viene detto che «era come se fosse invecchiato a vista d’occhio, era diventato curvo, ed era diventato inquieto» (p. 426). Il prefetto che parla con Levi Matteo nelle ultime pagine dei due romanzi (quello interno e quello esterno) è quindi un uomo diverso da quello che Woland aveva cominciato a descrivere all’inizio. Lo storico cinismo ha lasciato il passo a un senso di colpa che non è soltanto evangelico, ma a tutti gli effetti letterario. Ad operare la trasformazione sono sicuramente le vicende a lui contemporanee, su tutte il dialogo con Jeshua, ma sono anche quelle russe, per cui il nome di Pilato è sia una sorta di collante narrativo che un’ossessione, tanto per il maestro quanto per Ivan Bezdomnyi.
Sebbene a volte la letteratura lavori con archetipi esistenti, spesso ha anche la capacità di crearne di nuovi. Capitò ad Alessandro Manzoni, citato all’inizio, che con il suo Don Abbondio colorò di una nuova tonalità il concetto di viltà. Ma le storie qui citate dimostrano che si possono rimodellare archetipi sia scegliendo se attingere alla storia o al culto, sempre generosi da questo punto di vista, sia mischiando e rimodulando entrambi. In questo senso, France, Arendt, Callois e Bulgakov, mettendo la viltà di Ponzio Pilato in secondo piano, se ne servono per raccontare la crisi dell’uomo novecentesco, costretto a misurarsi con dei sensi inediti e aumentati di responsabilità, colpa, dubbio, ragione e fede. Nella crocifissione vedono la guerra, la tecnica, il progresso e gli interrogativi che ne conseguono. Ponzio Pilato ci insegna, insomma, che, per quanto possiamo lavarcele, le nostre mani si sporcheranno di nuovo e sempre, in un’igienica e perpetua crisi di coscienza.
Giuseppe Vignanello
Testi citati:
Arendt, Hannah, La Banalità del male: Eichmann a Gerusalemme (1963), Feltrinelli, Milano 2003, trad. it. P. Bernardini.
Bulkagov, Michail, Il maestro e Margherita (1966), Feltrinelli, Milano 2011, trad. it. M. Crepax.
Callois, Roger, Ponzio Pilato (1961), Einaudi, Torino 1963, trad. it. L. De Maria.
France, Anatole, Il procuratore della Giudea (1902), Sellerio, Parlemo 1980, trad. it. L. Sciascia.
Manzoni, Alessandro, Lettera al signor Chauvet sull’unità di tempo e di luogo nella tragedia (1820), a cura di Barnaba May, CLUEB, Bologna 2011.
Matteo, Vangelo.
Immagine in Evidenza: Ecce Homo di Antonio Ciseri
In Italia, la figura di Ponzio Pilato, il processo e il dilemma intorno alla sua ammissione – “Non gli trovo colpa” – si trovano nel racconto lungo La moglie del Procuratore, inclusa nella raccolta Morte di Adamo, di Elena Bono.
"Mi piace""Mi piace"
Interessanti riferimenti bibliografici storico – letterari sulla figura di Pilato. Con commenti critici circostanziati e plausibili. Grazie
"Mi piace""Mi piace"