Menti parallele, Laura Tripaldi
(effequ, 2020)
Mi è sempre sembrata curiosa la direzione in cui si muove la scienza quando vuole rendersi in qualche modo pop: sembra che un argomento sia tanto più attraente per un pubblico non specializzato quanto più è oscuro, lontano dalla quotidianità e apparentemente incomprensibile. Quando dico a qualcuno che sono laureata in fisica, la meccanica quantistica e la relatività generale sono i primi argomenti su cui mi viene chiesto di cominciare un dibattito, che spesso si sviluppa fino a sfiorare la fantascienza.
La figura dello scienziato staccato dal quotidiano, che per alcuni è estremamente affascinante, è anche alla base della sfiducia nella ricerca da parte di tanti altri: perché dovrebbe essere necessario investire in un’attività che non ha ricadute sulla vita reale delle persone quando ci sono tanti problemi concreti da affrontare? È facile archiviare queste domande come polemiche di gente ignorante, sarebbe invece più arduo e interessante rendere accessibile tutto il resto della ricerca scientifica, quella che influenza le vite delle persone ogni giorno e che si intreccia strettamente ai temi filosofici e fantastici della divulgazione classica.
Questo obiettivo è auspicato da Laura Tripaldi nell’introduzione del suo saggio Menti parallele (effequ): fin dalle prime pagine, quindi, il testo si presenta come un oggetto totalmente originale e attuale. Dottoranda in Nanotecnologie dei Materiali presso l’Università di Milano Bicocca, l’autrice indaga con un approccio multidisciplinare l’intelligenza della materia e la possibilità di un rapporto attivo tra umani e materiali.
La scienza dei materiali è un terreno di incontro naturale per discipline diverse: fisica, chimica, biologia. È anche uno dei rami della ricerca più vicini all’idea stereotipata di progresso tecnologico che abita le nostre fantasie: tutti gli scenari futuristici che si rispettino prevedono misteriose leghe di metalli indistruttibili che permetteranno agli uomini di ottenere il dominio assoluto sulla materia.
Tripaldi ribalta questo stereotipo e presenta uno scenario che non prevede il dominio sulla materia, ma un rapporto relazionale tra umanità e materia.
«Una cultura non può essere separata dai materiali che la caratterizzano; quando una parte consistente di questi viene dimenticata, la nostra conoscenza di quella cultura ne risente enormemente.» [p. 29]
La prima parte del saggio parte dal mito di Aracne per analizzare la tessitura come forma primordiale di tecnologia: le leghe indistruttibili del nostro immaginario vengono quindi sostituite dalle proprietà della materia soffice, indicata come vera frontiera da esplorare per le nuove tecnologie. La nostra idea di futuro comincia quindi ad essere lentamente scardinata e sostituita da un nuovo progresso sostenibile, che diventa una possibilità concreta nel momento in cui gli umani rinunciano ad ogni forma di superiorità sulla materia.
Con un approccio accessibile per i non addetti ai lavori e comunque affascinante per chi possiede un background scientifico, Tripaldi attraversa la mitologia e la letteratura – da Arianna ad Aracne passando per Mary Shelley e il Golem di Meyrink – e se ne serve per riflettere sui concetti di vita, mostruosità, relazione.
Gli argomenti più comuni della fantascienza, come l’esistenza di forme di vita non umane, vengono qui affrontate da un punto di vista completamente insolito: il concetto di vita diventa quindi vyta, e si espande per includere una varietà più ampia di vita come non la conosciamo, e come forse non riusciamo neanche ad immaginarla. La prospettiva antropocentrica viene lasciata al passato e la definizione classica di vita viene ampliata per creare una continuità sempre maggiore tra umanità e materia. Dopo aver scoperto di non essere il centro dell’universo né un fenomeno straordinario nella sua storia, all’uomo viene cioè chiesto di abbandonare anche l’idea di una presunta superiorità chimico-organica rispetto alla materia. Una tesi rivoluzionaria e per questo affascinante.
«La scienza è da sempre un problema di sintesi, non di rappresentazione: non agisce come uno specchio, riflettendo delle distinzioni – come quella tra vivente e non vivente – che esistono in natura, ma è sempre la costruzione di nuovi concetti e organismi che, con la loro mostruosità, ci permettono di attraversare la complessità del reale.» [p. 184]
Il problema proposto da Tripaldi nel saggio ed enucleato in questo paragrafo è la necessità di un approccio non confermativo alla ricerca scientifica: lo sforzo di accettare la complessità senza cedere alla tentazione di semplificare e incasellare il nuovo in categorie preesistenti. È evidente come la proposta di uno sguardo critico sulla realtà sia prima di tutto una proposta politica e sociale, e quindi quanto la scienza, per sua natura, sia legata allo sforzo quotidiano di capire la vita.
La divulgazione ha, in questo scenario, un compito estremamente delicato: rendere accessibili concetti complessi senza farli apparire semplici. In Menti parallele questo obiettivo viene raggiunto grazie ad una sapiente commistione di generi: rifuggendo da ogni gerarchia disciplinare, l’autrice usa la letteratura come punto di partenza per esprimere in maniera efficace e diretta concetti complessi. I mostri mitologici, quindi, diventano un tramite per parlare dei mostri tecnologici, e la mostruosità si configura non come una condizione sgradevole da nascondere, ma come un’opportunità per comprendere la relazione tra elementi umani e non-umani e la connessione tra umanità e tecnologia.
Il saggio di Tripaldi è quindi un ottimo punto di partenza per avvicinarsi alle nanotecnologie e alla scienza dei materiali e un prezioso contributo per una scienza coesa, priva di compartimenti stagni, in cui potersi riconoscere e a cui potersi affidare.
Loreta Minutilli