“I popoli scomparsi” raccontati da Guido Mattia Gallerani

I popoli scomparsi, Guido Mattia Gallerani
(Pequod, 2020)

A partire dagli albori dell’umanità fino ad arrivare al contemporaneo, I popoli scomparsi di Guido Mattia Gallerani attraversa le storie dei vinti dell’umanità. Di coloro che, in qualche modo, non ce l’hanno fatta. Sono stati assorbiti, sterminati, perduti; ma di loro rimane un’altra storia, ovvero la nostra.

I popoli scomparsi, tuttavia, non è una semplice testimonianza. Quello che è descritto è comprensibile e lontano. Appare come un’idea che abbiamo nella memoria, ma non abbastanza fulgidamente. Nonostante ciò, tramite i passaggi che hanno segnato l’inizio e la fine di questi popoli – che per quanto scomparsi hanno lasciato tracce -, la raccolta poetica di Gallerani si affaccia sulla contemporaneità, offrendo una visione diversa; in poche parole, la visione dell’altro da noi, la quale inevitabilmente ci consente un’apertura di sguardo.

Nella lettura è percepibile l’inceppo, l’errore involontario e umano di credersi duraturi, e così poi il vuoto e la nostra strana nostalgia storica delle epoche che ci siamo persi, e tanto più dei popoli perduti.
Se ultimamente l’idea della fine del genere umano è argomento di cui si parla abbastanza spesso, il libro di Gallerani ci offre un’immagine più concreta e comprensibile, ovvero quella della fine di una tradizione e di alcune delle storie dell’umanità. Un po’ come la fine di un individuo. Infatti, ciò che scompare con il popolo è la tradizione che si porta dietro. I suoi resti rimangono agli angoli della Storia, all’interno di altre tradizioni e quindi di altri popoli che ne hanno “rubato” gli stili. Permane una sorta di ricordo, ricamato e narrato da persona a persona, come accade con i parenti o le persone a cui teniamo e che vengono a mancare.

Una delle maggiori qualità poetiche di Gallerani è fare percepire l’inizio, le speranze, gli ideali e la conclusione di una moltitudine di individui in pochi versi. E lasciare in una o due pagine la malinconia nella testa del lettore, per se stesso e per gli altri. Una malinconia apparentemente incomprensibile, ma legata all’inevitabile tensione umana verso l’idea di fine.

Il lavoro di Gallerani, più che per una particolare predisposizione poetica, tocca il significato di poesia come illuminazione: lasciarsi alle spalle qualcosa di vero e passare oltre. Ovvero cogliere una verità, offrirla e infine assimilarla, per poi guardare altrove. Un tema quindi molto azzeccato, si potrebbe dire, per l’epoca frenetica in cui viviamo. Altrettanto azzeccato è lo stile conciso che, appunto, traccia in brevi versi la sensazione e l’atmosfera della perdita.

Spesso, leggendo I popoli scomparsi, ci si rende conto che questi appaiono come fasi della vita di un individuo. L’uomo di Neanderthal, che apre la raccolta, «si credeva la creatura più speciale / ma era solo il più giovane / tra gli abitanti effimeri del mondo».
Dunque non solo individui, ma anche intere popolazioni o aggregati di persone (sì, perché ci sono anche quelli, come le geisha o i samurai) si perdono nel tempo, e chi più chi meno verranno ricordati. La dura prova per sopravvivere, però, passa dai postumi, ovvero da coloro che sono sopravvissuti e che in qualche modo hanno vinto la battaglia generazionale e storica per la memoria. In mano ai vittoriosi – i “superstiti”, a cui peraltro verrà dedicata la poesia in chiusura – c’è il destino delle loro storie; in mano quindi anche a Gallerani che ce ne parla, e che oltre a fare un lavoro poetico denuncia con discrezione e senza accusati (poiché non ne esistono) il crimine mnemonico della Storia.

Le poesie di Gallerani comprendono immagini visionarie e interessanti costruzioni narrative. Nonostante questo – e la notevole capacità di sintesi già citata – procedendo nella lettura la raccolta risulta eccessivamente ripetitiva. Come detto precedentemente, nonostante i popoli narrati siano sempre diversi da poesia in poesia, il loro destino di scomparsa già conosciuto porta le poesie a essere a volte l’una la ripetizione sentimentale dell’altra. La sensazione percepita è quasi sempre la stessa, d’inizio e di fine, di creazione, distruzione e perdita.
Il libro si fa più interessante nelle ultime composizioni, dove ad essere nominati sono gruppi come i punk, i top gun e gli hipster, abbastanza vicini a noi per offrirci ancora più chiaramente l’idea di fine.

I superstiti

Dalle caverne dei monti
i figli decimati nella rotta
scivolando scendono
sui dirupi di ferro, a trincea
del cielo residuo.

Si calano dove il pascolo
fu fulminato da una scarica fredda,
una luce breve e tremenda
che negli ultimi giorni scemava,
dava pace negli strappi.

Alle pendici, dove inizia il guado
con le capanne più isolate, i letti diroccati
il legno è carbonizzato, il sentiero
scomparso in una valle lunare.

Vedono già dal bosco
i tonfi dei pini crollati, il terremoto
e in pianura le cicatrici dei campi incoltivati,
le orme rimaste impresse
nell’ombra surreale delle strade
e seguendo il canale, fino al mare,
che si ritira con le sue carcasse,
lontano avvertono l’intermittente
tempesta della folgore.

Il firmamento sopra brilla
senza ragione e non distingue
nell’oscurità immensa tra le sabbie
una notte qualunque dal ricordo
di un’altra, oltre le finestre
senza arredi e stanze illuminate.

Ma a gruppi sparsi non s’arrendono,
scavano una casa in ogni luogo.
Al bagliore della lampada
strappano spazio vitale al diluvio
e a cadenza, nascono e si nascondono
di nuovo tra le suppellettili.
Modulano futuri propositi
che corrono di bocca in bocca.
Ballano al ricordo di noi.

Vittorio Parpaglioni

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