Byung-Chul Han e l’obbligo della felicità

La società senza dolore, Byung-Chul Han
(Einaudi, 2021 – Trad. di S. Aglan-Buttazzi)

C’è una scena del Joker di Todd Phillips in cui il protagonista Arthur Fleck si trova davanti a un cartello che recita: Don’t forget to smile. Lo guarda, si ferma e con un pennarello cancella forget to. Non dimenticarti di ridere diventa Non ridere. È un momento fondamentale del film: è attraverso quella cancellazione che Arthur dà inizio all’insurrezione che scoppierà nel finale. Il colpo di pistola nello studio televisivo è solo un casus belli; la sua “rivoluzione”, che è un vero e proprio attacco al sistema capitalistico, non viene innescata dalla violenza, ma dall’inversione di un paradigma: la felicità che da obbligo si fa divieto. Egli stesso, che soffre di un disturbo che lo porta a ridere in momenti estremamente spiacevoli e stressanti, è l’espressione di questa inversione.

Chissà se anche Byung-Chul Han, ritenuto tra i più importanti filosofi del nostro tempo, abbia visto Joker. Proprio nel suo ultimo saggio, recentemente tradotto da Einaudi, Han sostiene che nella società neoliberista «la nuova formula di dominio recita: sii felice»[1]. Vale a dire che il dispositivo della felicità rappresenta uno strumento di potere. L’essere felici viene imposto come un obbligo, il quale, sotto le mentite spoglie di una libertà generalmente concessa, ha funzione disciplinare, di controllo e di coercizione. Pertanto ogni azione contraria all’espressione della felicità, proprio come in Joker, sarebbe un’azione contraria alle forme di potere, e dunque ha un ruolo sovversivo.

In che modo il sistema esercita un dominio attraverso la felicità? Soprattutto attraverso la paura e la cassazione del dolore. Quella neoliberista è un società della positività, palliativa, ipersensibile al dolore, che impone la felicità proprio a scapito della sofferenza. Il dolore ci terrorizza al tal punto che ci rifiutiamo di accettarne anche solo l’esistenza, e l’algofobia finisce persino a determinare i nostri percorsi di vita: onde evitare di farci del male, ci rifugiamo in uno stato di indolenza e abulia, l’Altro diventa esso stesso dolore, e finiamo per rifuggire anche le relazioni più intense per paura di soffrire. Una «società dominata dall’isteria della sopravvivenza»[2], in cui, è paradossale, «si soffre sempre di più a causa di cose sempre più piccole»[3].

Le conseguenze sono molteplici e hanno un fine per l’appunto politico. Scrive Han: «Il dispositivo neoliberista della felicità ci distrae dai rapporti di dominio vigenti costringendoci all’introspezione. Fa sì che ognuno si tenga occupato solo con sé stesso, con la propria psiche, invece di indagare criticamente le questioni sociali»[4]. L’altro scompare, s’impone l’ego narcisistico. Concentrati sul nostro dolore, inteso come questione privata, restiamo ciechi e indifferenti al dolore dell’Altro; finiamo isolati, privati di sensibilità. L’empatia lascia posto all’apatia, e chiusi ermeticamente alla realtà, ci rifugiamo in una digitalizzazione anestetizzante, dove il like rappresenta «il vero e proprio analgesico della contemporaneità».[5] Ma altresì restiamo ciechi anche alle vere fonti del dolore.

Dice ancora Han, badate bene: «La sofferenza, della quale sarebbe responsabile la società, viene privatizzata e psicologizzata…Tormentati da paure e insicurezze, ecco che colpevolizziamo non la società, bensì noi stessi»[6]. Le cause sociali del dolore sono pertanto negate: ciascuno viene indicato come responsabile della propria sofferenza, e «la sofferenza viene interpretata come il risultato del proprio fallimento»[7]. In questo modo la società, depoliticizzando il dolore e relegandolo al sistema della medicina e alla sfera privata, recide ogni contatto diretto tra sé e le sue responsabilità, tenendosi al riparo altresì da ogni opposizione. «Così, invece della rivoluzione, c’è la depressione»[8].

All’interno di «una società della positività che tenta di sbarazzarsi di tutto ciò che è negativo»[9] e «il dolore viene interpretato come un segno di debolezza, qualcosa da nascondere o da eliminare in nome dell’ottimizzazione»[10], la “ribellione” passa attraverso un “culto” della sofferenza. Il paradigma va invertito per rendere le nostre condizioni di vita più tollerabili; la nostra società meno egoista e più altruista e collaborativa.
L’invito di Han è di ripristinare il nostro rapporto con il dolore, ritrovarne il senso e l’etica; reimparare l’arte di patire. Sono molto belle le pagine che Han dedica a Proust e a Kafka, autori che coltivavano «la sofferenza a vantaggio della scrittura»[11]. Il suo è un invito a ritrovare altresì la poetica e il linguaggio del dolore, e la letteratura può fingere da importante strumento. La letteratura che ha saputo fare i conti col dolore e ci ha messo da sempre in contatto con l’Altro.
Non possiamo tenere il dolore alienato dalla nostra esistenza, perché «senza dolore non c’è neanche rivoluzione né rinnovamento radicale, non c’è Storia»[12], «senza la cultura del dolore nasce la barbarie».[13] Il dolore è esperienza; attraverso il dolore si raggiunge la conoscenza e la trasformazione, quindi anche l’evoluzione personale e il progresso collettivo. «Il dolore è vita».[14]

La società del dolore è un’opera piccola nelle dimensioni (appena ottanta pagine) ma poderosa nella sua importanza. Prendendo le mosse da testi fondamentali come Nemesi medica di Ivan Illich e dal pensiero di Nietzsche e di Jünger su tutti, Han riesce a far luce su uno dei fenomeni più cogenti e problematici della nostra contemporaneità. Il suo sguardo lucido e severo sulla società occidentale sa essere faro in una notte di tempesta: prezioso nel ricordarci, ancora una volta, le origini sociali della sofferenza e le cause sistemiche e politiche della depressione; nonché nell’invitarci a riprendere contatto con la realtà e con l’Altro attraverso una riappropriazione del dolore, una rivendicazione del diritto di soffrire senza averne colpa o vergogna.

Giuseppe Rizzi


[1] B.-C. Han, La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi, 2021, p. 16
[2] op. cit. p. 25
[3] op. cit. p. 34
[4] op. cit. p. 17
[5] op. cit. p. 8
[6] op. cit. pp. 17-19
[7] op. cit. p. 19
[8] op. cit. p. 19
[9] op. cit. p. 6
[10] op. cit. p. 7
[11] op. cit. p. 47
[12] op. cit. p. 56
[13] op. cit. p. 45
[14] op. cit. p. 53

Immagine in evidenza: We hurt, Jane Boyd by Unsplash

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