Il primo tratto affascinante del Ferdydurke di Gombrowicz è il fatto che, dalla sua prima pubblicazione verso la fine degli anni Trenta ad oggi, ancora si è incerti su quale categoria usare per riferirvisi.
Che cos’è Ferdydurke?
Forse è:
la straordinaria e micidiale tortura del verde infraumano, dei germogli, delle foglioline e dei boccioli
o il travaglio dello sviluppo e del non-sviluppo
o forse la sofferenza dell’incompiutezza e della mancanza di una forma
o il supplizio della formazione del nostro io da parte degli altri
il dolore della violenza fisica e psichica
lo spasmo della dinamizzanti tensioni infraumane
l’obliqua e non meglio definita pena di una deviazione psichica […]
…Gombrowicz offre una rosa di queste e altre risposte, ma proprio perché le mostra tutte, nega implicitamente che una qualsiasi di esse possa essere quella giusta. È, in sostanza, una ricerca di ordine nel caos, che nel tentativo di ordinarsi genera altro caos: il secondo, affascinante tratto peculiare di questo libro.
Ferdydurke è una sintesi dei drammi su cui l’uomo della società di massa si arrovella, ed è anche una summa dei temi affrontati da Gombrowicz nel corso di tutta la sua produzione. È il curioso figlio del romanzo picaresco, del saggio filosofico e della satira sociale, e non coincide davvero con nessuno di essi. È la storia di Giuso, trentenne non ancora adulto, non ancora scrittore, non ancora maturo, che sotto il peso della retorica vuota di un docente ringiovanisce suo malgrado, tornando ragazzino. Viene rispedito a scuola, costretto ad assistere all’“infantilimento” forzato di sé e dei suoi compagni; attraverso le relazioni con tutti gli strati sociali più rappresentativi della Polonia coeva a Gombrowicz – la borghesia cittadina; il proletariato urbano; la piccola nobiltà campagnola, col suo stuolo di contadini e servitori – appare chiaro, attraverso gli occhi di Giuso, che non è più possibile alcun tipo di naturalezza.
Ogni atteggiamento è posa; ogni ideologia, ogni filosofia e anche ogni tentata ribellione verso l’ideologia stessa si trasforma inevitabilmente in una smorfia, in una costruzione artificiale e artificiosa. L’unica verità affidabile (non a caso, mai esplicitata) è quella del continuo mutare di ciò che invece l’uomo cerca instancabilmente di bloccare in una forma ultima. Ferdydurke, insomma, tratta sì del “problema della forma”, ma così come la materia scalcia e lotta pirandellianamente contro la costrizione, nemmeno il dolore di questa costrizione si lascia davvero inquadrare. Il processo nevrotico con cui Giuso si fa osservatore della realtà e dei rapporti fra persone e concetti è talmente rapido e profondo che darne un’interpretazione inequivocabile non è possibile.
Anche la lingua, seguendo questa indefinitezza diffusa, si fa inafferrabile e camaleontica, dando l’impressione di essere in grado di esprimere ogni cosa, ma soprattutto di poter nascondere molto più di quanto mostra. Come sintetizzato efficacemente da Michele Mari, che ne ha curato l’edizione più recente, quella di Gombrowicz è «una lingua cangiante che si fa e si disfa in continuazione»1.
Questa qualità della lingua è propria non solo di Ferdydurke, ma dello stile stesso di Gombrowicz, per il quale la scrittura è anzitutto sovversione sarcastica di un canone – quello occidentale, ed europeo in particolare2 – del quale non ha mai veramente fatto parte. In effetti, suoi lavori vennero inizialmente accolti con diffidenza ed incomprensione in patria, e per molti decenni fu sempre piuttosto malvisto, come autore, dal potere costituito. Nel 1939, sorpreso dallo scoppio della Seconda Guerra Mondiale mentre si trovava in Argentina, non ebbe altra scelta se non restarvi: anche i lunghi anni trascorsi in uno stato così “altro” rispetto al proprio contribuirono in qualche modo a suggellare questa sua alterità rispetto al canone.
La natura cangiante di Gombrowicz inonda anche l’ecletticità della sua produzione: ha danzato sulle forme del romanzo (lo stesso Ferdydurke, e fra gli altri Pornografia e Gli indemoniati); del racconto breve (la raccolta d’esordio Memorie del periodo della maturazione è citata in Ferdydurke, come una sorta di easter egg, quale titolo del libro che Giuso sta cercando di scrivere); del testo teatrale; della diaristica, rivelatasi preziosissima per l’arricchimento degli studi sulla sua poetica e vita. Sullo sfondo, poi, si staglia un pulviscolo di opere che è difficile catalogare: Cronos – di recente ripubblicazione da parte del Saggiatore –, caleidoscopica mistura di diaristica privata e pubblica, o il curioso Corso di filosofia in sei ore e un quarto, nato dalla sorta di lezioni di filosofia da salotto che Gombrowicz usava tenere durante gli anni in Argentina. È complesso e probabilmente inutile ostinarsi a voler classificare l’opera e la persona di Gombrowicz: Giuso liquiderebbe l’affare ricordando che
la somma di tutte queste possibilità, sofferenze, definizioni e parti è talmente incommensurabile, inimmaginabile e inesauribile che, per onestà intellettuale e dopo le più scrupolose valutazioni, bisognerà ammettere che non ne sappiamo nulla.3
C’è un che di assurdo in un trentenne costretto a tornare sui banchi di scuola solo perché un vecchio professore si ostina a vederlo piccolo, così come lo è imparare la filosofia occidentale in sei ore e un quarto. Gombrowicz sfiora il magico, ma non lo tocca mai, perché a ben vedere il punto di partenza della sua scomposizione nell’assurdo è sempre dolorosamente reale. Ripuntando lo sguardo su Ferdydurke, ne scorgiamo la natura di «beffarda resa dei conti con una realtà in cui la stupidità regna sovrana e gli individui sono ormai delle marionette prive di senso».4
L’attualità di questo concetto è spiazzante; e l’importanza di Gombrowicz ritrova proprio qui il suo vincolo con l’epoca odierna. La paura della dissoluzione, dell’indeterminatezza forzata e della mancanza di contorni è la bestia nera lottando contro la quale la contemporaneità si è costruita: ed è vero che sono temi fin troppo spesso dibattuti, ma non deve essere per forza semplicistico constatare che la gran parte delle nostre abitudini di abitanti del ventunesimo secolo ruota attorno ad un unico, disperato sforzo – trovare una nostra forma che sia unica e stabile, per non venire dimenticati.
Giuso lotta contro la forma – questa forma instabile, artificiosa, costringente –, ma allo stesso tempo la desidera e la cerca disperatamente: tutto è de-formato dalla lente grottesca e ridicola di una realtà disperata come poteva esserlo la Polonia appena prima della Seconda Guerra Mondiale, un paese immaturo che si crede maturo, così come Giuso stesso oscilla fra maturità e immaturità. Gombrowicz stesso scrive in un’occasione che si tratta del «lamento di un individuo che si difende dalla dissoluzione, che reclama […] una gerarchia e una forma, e allo stesso tempo si rende conto che qualsiasi forma lo sminuisce e lo limita: si difende dall’imperfezione altrui, perfettamente cosciente della propria».5
Su un piano meno metafisico, i tratti di contemporaneità dell’opera di Gombrowicz sono altri e molteplici. Francesco Cataluccio, da anni il principale curatore dell’opera di Gombrowicz in Italia, parla di un’altra delle sue opere, Trans-Atlantico, come di un testo che «fa a pezzi tutti gli stereotipi nazionalisti polacchi»6 presenti con prepotenza all’epoca, e in forte crescita anche oggi, con i movimenti populisti a farla da padrone in più di uno stato europeo. Del resto, pur nel suo continuo oscillare fra caos e gerarchia, fra iperanalisi e assurdo, Gombrowicz racconta e prevede «il crollo di un mondo, della fine di un’epoca ridicola che sfocia in una tragedia».7
L’indeterminatezza della forma è anche tensione continua, incertezza nervosa di ciò che non sta né da un lato dell’esistenza né dall’altro: è «quell’ora esanime e labile in cui la notte è già finita e però l’alba non è ancora incominciata davvero»;8 è ammettere che «alle apparenze ero un adulto, eppure non lo ero»9; è qualsiasi cosa che è «troppo stupida per essere vera»10. Ma è soprattutto la gelida consapevolezza che «non sappiamo ancora come difendere la nostra più profonda freschezza dal demone dell’ordine».11
Allora, forse, non è davvero necessario cedere al demone che ci comanda di trovare una forma e una definizione a tutto. Basta presenziare alla scuola dell’irrealtà, che sola consente di abbracciare con lo sguardo tanto la naturalezza quanto l’artificio, tanto l’ideale quanto il concreto, lasciandoci sempre il dubbio che il sogno non sia solo sogno, ma magica deformazione.
Emma Cori
1 M. Mari, Prefazione a W. Gombrowicz, Ferdydurke, Il Saggiatore, Milano 2020, p.13.
2 W. Motte, Playtexts: Ludics in Contemporary Literature, University of Nebraska Press, 1995, pp. 52-53.
3 W. Gombrowicz, Ferdydurke, Il Saggiatore, Milano 2020, p. 228.
4 F. Cataluccio, Il ghigno tragicomico dell’immaturità in Ibid., p. 324.
5 W. Gombrowicz, Per evitare malintesi, articolo pubblicato prima dell’uscita del romanzo. La versione completa in traduzione si trova nell’edizione di Ferdydurke del 1991, uscita per Feltrinelli nella traduzione di V. Verdiani e con la curatela di Francesco Cataluccio.
6 Ritratto di Gombrowicz, intervista di Andrea Cafarella a Francesco Cataluccio, Novembre 2020, per Kobo News: Kobo News | Ritratto di Gombrowicz
7 F. Cataluccio, Il ghigno tragicomico dell’immaturità in W. Gombrowicz, op. cit., p. 321.
8 W. Gombrowicz, op. cit., p 17.
9 Ibid., p. 19.
10 Ibid., p. 36.
11 Ibid., p. 109.