L’unica persona nera nella stanza, Nadeesha Uyangoda
(66thand2nd, 2021)
«Negli ambienti culturali italiani i neri non esistono, o meglio: esistono come oggetto del discorso, quasi mai come soggetto.»
Così scrive Nadeesha Uyangoda nel capitolo introduttivo di L’unica persona nera nella stanza [pag. 13], sintetizzando in poche parole l’istanza da cui nasce questo libro e la direzione in cui intende andare. In Italia il discorso sulle minoranze etniche si presenta spesso come il tentativo di gestire un problema – problema che può anche essere visto come un’opportunità, a seconda dell’orientamento politico di chi parla: si concentra sui flussi migratori, sulle situazioni di marginalità, sulla criminalità, o sul modo migliore di promuovere l’accoglienza e l’integrazione. I temi e le opinioni possono variare, ma quasi sempre il dibattito è fatto da bianchi che si rivolgono ad altri bianchi.
Nonostante l’Italia sia terra di immigrazione da diversi decenni, nel nostro Paese manca una sensibilità riguardo a quella che in inglese viene chiamata representation: la presenza delle minoranze come soggetti attivi nel discorso politico e culturale. Non a caso, le poche volte che si affronta la questione, questo viene fatto con parole e categorie mutuate dal contesto americano, in cui il dibattito sul tema è molto più sviluppato. L’unica persona nera nella stanza, quindi, è un libro davvero necessario, perché offre uno sguardo non bianco sulla società italiana.
Uyangoda è una giornalista freelance italo-srilankese che si occupa da diversi anni di razzismo, identità e migrazioni: da questo lavoro nasce il suo primo libro, che mescola esperienze personali, spezzoni di interviste, riflessioni dal tono saggistico, analisi di fatti di cronaca, costume e politica. Ogni capitolo si concentra su un tema specifico: la percezione delle coppie interrazziali, il rapporto delle minoranze con l’estetica (la propria e quella occidentale), il problema della cittadinanza, la presenza (o assenza) delle persone nere nei media e nel dibattito pubblico, la terminologia che descrive chi non è caucasico, le manifestazioni di razzismo in Italia, l’intersezione tra questione di genere e di razza.
L’autrice si muove tra questi argomenti con un linguaggio preciso e privo di retorica. Racconta le sue impressioni sulle storie che raccoglie, facendo dialogare la propria esperienza con quella altrui: ne esce una narrazione genuina, sfaccettata, mai dogmatica.
Tra i molti meriti di questo libro, ce ne sono due che mi hanno colpita in maniera particolare. Il primo è la capacità di attirare l’attenzione su alcune questioni che spesso passano inosservate anche nei discorsi di chi si dichiara antirazzista: ad esempio la difficoltà di far penetrare le istanze delle donne immigrate nella lotta femminista; oppure, come già accennato sopra, la rappresentazione delle minoranze nel dibattito pubblico e nella narrazione. La loro presenza, già di per sé scarsa, è sempre funzionale a un ruolo che la persona in questione è chiamata a ricoprire –che sia quello di testimone diretto del razzismo e della migrazione, o quello di «feticcio della diversità». Questo feticcio è ciò che in inglese viene chiamato token (letteralmente, gettone): «quel soggetto che è inserito all’interno della narrazione a palese rappresentanza delle minoranze etniche» (o anche di altre categorie marginalizzate, ad esempio persone LGBTQ), ma la cui presenza appare posticcia, perché non si risolve in una vera pluralità di voci ma in una semplice operazione di marketing.
«Avete mai acceso la televisione, la radio o aperto un giornale per vedere, ascoltare o leggere una persona di colore che presenta –che so– un programma di viaggi o commenta la nuova legge di bilancio? No? Infatti, quasi sempre, quando va bene, li vediamo parlare di razzismo, immigrazione e Salvini. Quando va male, non sono proprio rappresentati. » [pag. 91]
Il secondo importante merito del libro è la capacità di guardare oltre i singoli fatti di cronaca e di costume, rintracciando i problemi strutturali e istituzionali che stanno alla base. In questo gioca un ruolo essenziale l’analisi del contesto italiano e dei suoi aspetti specifici: in particolare, l’autrice sottolinea come il dibattito politico non si concentri sulla distinzione tra bianchi e neri –a differenza di quanto avviene in altri Paesi– ma tra italiani e stranieri, in quanto si dà per scontato che tutti i cittadini italiani siano caucasici. Nell’analisi di Uyangoda, questo problema culturale viene strettamente correlato con il problema politico della cittadinanza, dei diritti che ne derivano e delle opportunità sociali a cui questi diritti danno accesso.
«Per il laureato che non può insegnare perché non ha la cittadinanza nonostante viva a Genova da quando aveva due anni, il problema non è che gli chiedano se è italiano, il problema è perché non è ancora italiano.» [pag. 69]
L’urgenza di inserire i casi particolari in una prospettiva più ampia viene sottolineata anche in riferimento alle manifestazioni di razzismo, che negli ultimi anni vengono stigmatizzate soprattutto attraverso i social. Secondo l’autrice, denunce di questo tipo causano un’indignazione tanto forte quanto effimera, e alla lunga possono anestetizzare l’opinione pubblica; mentre quello che manca, in Italia, sono organizzazioni che riconoscano il razzismo come un problema strutturale, e partano da questa consapevolezza per combatterlo.
Questi sono solo alcuni dei numerosi spunti di riflessione contenuti in un libro di grande intelligenza e concretezza, a cui si spera si aggiungano altre voci nei prossimi mesi e anni.
Benedetta Galli