I personaggi monomaniaci di Sergio Oricci

Volevo essere Vincent Gallo, Sergio Oricci
(2021, Pidgin)

«Guarda che ti ho detto una cosa importante.»
«Non era quello che volevo sentire.»
«Lo so. Ma dovresti abituartici.»
«A cosa?»
«A non sentire quello che vorresti.»

smolNon sempre le cose sono come ce le aspettiamo, il che non significa che valgano di meno. Questo sembra essere il mantra di Volevo essere Vincent Gallo, raccolta di racconti di Sergio Oricci, autore del romanzo Cereali al neon (Effequ) e Pesci di vetro (Gattomerlino/Superstripes). Un mantra che in questa citazione compare già con chiarezza, fin dal primo racconto della serie, Piața Mărăști.

I protagonisti sono personaggi eccentrici dalle monomanie ben specifiche, che si siano appena manifestate o presenti costantemente da tutta la loro vita. Ci sono i feticisti degli oggetti, gli ossessionati dal rock’n’roll o da personaggi mainstream come Rachel Weisz o Vincent Gallo; c’è chi riprende in video ogni giorno il lago di Castel Ruggero, e chi scopre di avere il superpotere di capire da quanti giorni le persone non si sono lavate i capelli, senza riuscire a pensare ad altro.

Non c’è necessariamente qualcosa di morboso, in queste ossessioni, anche se a un occhio esterno può sembrare il contrario (anche in modo piuttosto allarmante), né avvertiamo nella lettura un tentativo di giustificare o razionalizzare certi impulsi. Non c’è neppure cinismo, ma piuttosto una grande voglia di aprirsi alla conversazione, di ascoltare e parlare senza filtri, come con un buon amico che ci racconta la sua storia, senza imporre sovrastrutture, aspettative, dinamiche di consequenzialità o di logica che possano sporcarne l’autenticità. Quelli che leggiamo sono pensieri e idee assurde, ma anziché ragionarci e aggrottare la fronte, ciò che ci viene richiesto è di avere fiducia e credere in loro.

Sergio Oricci ci invita infatti a utilizzare lo stesso approccio con cui uno dei protagonisti si rapporta alle opere d’arte contemporanea: «L’arte contemporanea è piena di oggetti inconsueti, cose che sembrano qual­cosa e sono altro o cose che invece non sono niente, nel senso che oltre a quello che vedi non c’è altro, o se c’è non lo colgo o non mi interessa. E sicuramente non c’è una funzione pratica, quindi l’oggetto ti parla al di fuori di quelle che sono le solite dinamiche tra oggetti e perso­ne. Una forchetta ti guarda e ti chiede di essere presa, di essere usata, ti suggerisce di cercare qualcosa per poterci affondare i suoi denti. Un’opera di arte contemporanea ti chiede solo di essere guardata, ascoltata, di lasciar per­dere i tuoi preconcetti sull’oggetto e sul resto. L’arte con­temporanea è molto semplice, nonostante spesso si pensi il contrario.» (pag. 102)

Tutta la narrazione si sviluppa su queste due forme: dialoghi diretti intervallati da pause riflessive, piccoli flussi di coscienza in cui si concentrano i pensieri del protagonista. In questi momenti di sospensione dell’azione, le manie dei personaggi diventano il pretesto per innescare riflessioni esistenziali. L’interesse ossessivo che riservano verso dettagli che agli altri appaiono insignificanti ci rivela una parte intima di loro. Ciò che li rende bizzarri, eccentrici, è ciò che li rende anche veri, umani, vivi.

Lo stile è leggero e piacevole, non ha bisogno di termini ricercati per rendersi efficace. La brevità, la scorrevolezza, i dialoghi incalzanti e la comicità delle situazioni fanno sì che i racconti vadano giù come caramelle. Il che è coerente con l’universo estetico dei racconti: Oricci mostra un interesse particolare per gli oggetti visivamente “deliziosi”, scintillanti e fluorescenti, su cui spesso insiste, come orsetti gommosi, pesci di vetro, caleidoscopi, luci di Natale, neon, ciucci in vetroresina.

Un altro fatto curioso è che molti racconti sono tra loro interconnessi, spesso con risvolti comici, tanto che in alcune conversazioni ritroviamo spesso riferimenti ad altri protagonisti della raccolta. Ad esempio, la risposta alla domanda che ossessiona uno di loro, ovvero se una sua vicina di casa finge o no di essere in gravidanza, è rivelata successivamente da un’osservazione casuale dalla protagonista di un racconto successivo.

Quella di Volevo essere Vincent Gallo è infatti una narrazione piuttosto anticlassica nella sua struttura: nessuno dei racconti raggiunge un senso narrativo veramente compiuto, perché in fondo, neanche la vita lo ha. Nessun finale è come ci aspettavamo, né conclude in maniera soddisfacente la storia, ponendo fine al conflitto dei personaggi. I protagonisti si ritrovano ad avere a che fare con risposte non risolutive, che contrastano con le loro aspettative; eppure non solo sono sufficienti, il più delle volte, ma esprimono anche una certa bellezza. La stessa bellezza di un’opera d’arte contemporanea: inattesa, sorprendente, scevra dalla dipendenza da un senso logico. Una bellezza che semplicemente esiste, anche quando non riusciamo a vederla.

«È che volevo essere Vincent Gallo», ammette con sconforto l’ultimo protagonista della raccolta, «non Joaquin Phoenix.» (pag. 151)

Davide Lunerti

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