L’evidente assurdità del reale: intervista a Francesco D’Isa

 L’assurda evidenza, Francesco D’Isa
(Tlon, 2022)

PLANETARI-BIG---L'assurda-Evidenza---COVER-Front-RGBI filosofi tendono a presentare le loro convinzioni in maniera impersonale, come se quello che espongono fosse il punto di vista di Dio: essi nascondono il processo con cui sono giunti a determinate intuizioni per mostrare solo i risultati della loro ricerca. In L’assurda evidenza (edito da Tlon), Francesco D’Isa compie l’operazione esattamente opposta: sin dall’inizio di questa sorta di diario espone i risultati del suo percorso filosofico per poi ripercorrere il processo esistenziale che li ha prodotti.

D’Isa parte dall’esperienza personale del dolore per indagare su un “qualcosa” la cui esistenza è l’unico elemento certo: sembrerebbe poco, invece è sufficiente per avviare un percorso, diviso in tre atti, in cui si giunge a teorizzare l’estrema contraddittorietà del reale, la sua (evidente) assurdità. La presa di coscienza di ciò potrebbe condurre alla disperazione più nera, mentre invece rappresenta la chiave per scoprire quanto la realtà sia ricca e ‹‹infinitamente piena››. Ho avuto il piacere di dialogare con Francesco D’Isa riguardo a questo suo appassionante percorso filosofico e alle conseguenze che comporta.

Partirei dalla forma con cui si presenta il libro: il diario filosofico, un genere che ha una storia importante ma che, essendo la filosofia spesso relegata al saggio o all’articolo ‘scientifico’, oggi non è particolarmente frequentato. La forma diaristica presuppone poi l’espressione di una soggettività, ossia di quella che lo redige, ed utilizza sempre la prima persona. Nel tuo libro però pare che tenti di svincolarti dall’Io, rivedendo il concetto di identità stessa; dici ad esempio: «La prima persona singolare è una diretta conseguenza della terza» (p. 70). In questo senso, la scelta del diario non crea una tensione tra la sua forma e il contenuto filosofico?

Sì, sicuramente questa scelta crea una tensione. La posizione del diario ti permette di esplicitare qualcosa che in realtà nella saggistica, anzi in qualsiasi forma di scrittura, credo sia implicito: chi scrive espone il proprio punto di vista, qualunque esso sia. Anche se lo maschera dietro a ragionamenti (come del resto faccio anche io nel libro) è comunque tutto figlio di una prospettiva soggettiva. Reintrodurre il diario filosofico, anche con al suo interno una sottotraccia saggistica, credo palesi da un punto di vista epistemologico il fatto che quanto viene detto è tratto da una prospettiva e anche da scopi, convinzioni e contesti particolari.

Quanto al suo essere in contraddizione con l’identità che vado a criticare, direi che questo è uno dei tanti paradossi del testo. Per decostruire un Io prima devo porlo e poi, per così dire, “mangiarmelo”, altrimenti non avrebbe senso parlare di decostruzione. È un paradosso simile a quello presente nei mistici, i quali sostengono che la condizione ultima sia inesprimibile, ma poi “chiacchierano” moltissimo riguardo a questa condizione. Dov’è quindi il punto? Sta proprio nel percorso: devi “chiacchierare” molto per riuscire ad avvicinarti ad esprimere quello che intendi.

All’inizio del libro racconti come l’esperienza di un periodo di malattia abbia significato per te l’inizio del tuo percorso filosofico, che prende le mosse dalla domanda “Perché soffriamo?”. Ritieni che l’origine della filosofia stia proprio nella coscienza del dolore? Questa idea contraddirebbe la concezione aristotelica secondo la quale la filosofia nasce dalla meraviglia nei confronti di ciò che ci circonda.

Questa direi che è più una questione di punto di vista, quindi non generalizzerei. Per me il filosofare è nato senz’altro dal dolore, senza nulla togliere alla meraviglia di Aristotele e alla curiosità, che sicuramente sono un’enorme fonte della filosofia. Credo che il punto di partenza possa variare a seconda dei casi: direi che è proprio una questione di “gusti” (anche se non è proprio il termine più adatto).

Da una prospettiva più ampia, credo invece che da qualsiasi punto parta, la filosofia dovrebbe comunque porsi il problema del dolore. È molto nobile e molto bella l’immagine di un’indagine distaccata sulle cose che non si pone come limite la sofferenza, che però forse dal punto di vista esistenziale è il nostro problema più impellente, dunque va affrontata, con coraggio e onestà ma va affrontata. La conoscenza delle cose è una questione fondamentale, ma non penseremmo di certo a quello se fossimo in una camera di tortura! Sebbene il dolore non sia la causa di tutto il filosofare è però senza dubbio un argomento a cui la filosofia dovrebbe sempre rispondere; credo che più o meno esplicitamente lo faccia quasi sempre.

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Il testo è accompagnato da immagini da te create, che fanno parte di una serie che hai intitolato “Meditazioni”. In una nota le definisci come la versione visiva del libro. Di queste immagini mi ha colpito il fatto che non sono didascaliche, e che quindi non descrivono in alcun modo il testo direttamente. Come hai concepito questo rapporto immagine/scrittura?    

Le immagini non sono nate per essere inserite in questo libro. È stata un’idea successiva che ho avuto assieme all’editor Matteo Trevisani. Sono però state create tutte durante la stesura ed effettivamente non sono illustrative in alcun modo del contenuto del libro ma lo sono, magari in modo contorto, del processo mentale con cui ho sviluppato il testo. Effettivamente dal punto di vista pratico questo libro deve molto alle mie esperienze con le tecniche di meditazione: la maggior parte delle idee che espongo sono state “distrazioni” di sedute di meditazione. La stessa cosa è avvenuta con le immagini, ma nel loro caso in modo voluto: quello di fare dei disegni subito dopo aver meditato era proprio un esperimento per vedere cosa succedeva disegnando senza pensare a cosa stavo andando a fare.

Nel libro citi molti pensatori orientali che, evidentemente, hanno segnato la tua formazione: Nagarjuna, Buddha, Lao-tzu, Zhuangzi. Ammetti anche che, in quanto occidentale, non ti è stato facile assimilare il pensiero di questi autori. Credi che un occidentale possa assimilare in modo profondo un pensiero così lontano dal nostro? E quanto, secondo te, una traduzione “occidentalizzata” della filosofia orientale rischia di travisarne i messaggi e le pratiche, portando così ad un loro snaturamento? (penso ad esempio allo Yoga, che è finito per diventare disciplina da palestra)

Proprio a proposito dello Yoga Jung ti direbbe che non è possibile per un occidentale assorbire queste pratiche. Negli anni Venti scrisse che per gli occidentali lo Yoga non solo era, per così dire, “in-assorbibile”, ma addirittura pericoloso. Secondo lui gli occidentali dovevano studiarlo ma tenersi alla larga dalla pratica. Tralasciamo poi il fatto che la pratica che consigliava era la sua psicologia, ma a parte questa “virata pubblicitaria” lui la pensava proprio così.

A distanza di più di un secolo direi che senza ombra di dubbio la nascita in un contesto culturale fa sì che tu non possa assorbire un testo di Lao-Tzu o di qualunque altro come lo assorbe un cinese, o un indiano e così via, però questo non è necessariamente né un limite né un travisamento. Rispetto a cento anni fa le società sono molto più permeabili, anche perché oggi possiamo viaggiare molto più facilmente. Quando ero adolescente lessi Lao-Tzu e ne imparai alcune parti persino a memoria: una cosa che non avrebbe potuto succedere nel 1920. Dall’altro lato secondo me il sincretismo può essere un arricchimento: è vero che non leggiamo questi testi alla stessa maniera degli orientali, ma chi ci dice che il modo in cui impariamo a leggerli noi sia per forza peggiore o dannoso? In ultimo, se andiamo a vedere la storia del pensiero la permeabilità vi era anche nell’antichità: gli scettici erano permeabili al pensiero degli indiani, basti pensare a Pirrone che con la campagna di Alessandro Magno entrò in contatto con quelli che lui chiamava “fachiri”, cioè gli asceti indiani. Questo significa che sì, noi occidentali siamo cresciuti nel contesto della filosofia greca, ma abbiamo anche tracce di sangue orientale nelle vene.

Scorrendo la bibliografia de L’assurda evidenza si nota anche l’influenza di esponenti della filosofia analitica[1] poco noti al di fuori dai dipartimenti di filosofia delle università, come Williamson, Quine, Priest, Nozick. Mi hanno molto colpito questi riferimenti ad uno stile di pensiero che viene considerato molto “arido”, in un testo che ha invece uno stile molto “caldo”, in quanto parla di un’esperienza filosofica vissuta attraverso il dolore, la messa in discussione delle proprie credenze più profonde e la ricerca di una risposta significativa all’assurdo che permea la realtà. Credi che il tuo libro smentisca l’idea secondo cui questo genere di filosofia sia solo un esercizio accademico, che non sortisce alcun effetto sulle nostre esistenze?

Sono un estimatore della filosofia analitica (al netto del fatto che esistono filosofi analitici pedanti e noiosi), innanzitutto perché fanno parte della mia formazione, dal momento che ho studiato a Firenze in anni in cui forse era l’unico polo analitico d’Italia. Smentirei poi quest’idea perché il modo di procedere analitico ha numerosi pregi tra cui l’appiglio alla logica, che non è assolutamente fine a sé stesso, ma può risolvere o problematizzare alcune questioni etiche. Un esempio interessante tra quelli che hai citato è Priest che, oltre ad essere un filosofo analitico, è un conoscitore della filosofia buddhista. Ci sono logici buddhisti come Nagarjuna che applicano la logica a questioni estremamente “calde”, cioè di carattere spirituale, in cui è implicata la salvezza dell’anima, un po’ come facevano gli Scolastici nel Medioevo. Secondo me l’applicazione rigida della logica può essere “calda”: un esempio per me vitale è il teorema di Gödel[2], che in me genera un impatto emotivo esattamente come una poesia di Rilke o di Montale. La filosofia analitica può quindi avere un impatto emotivo molto forte se si è affini con quel tipo di linguaggio.

In L’assurda evidenza emerge il fatto che le nostre idee sul mondo sono strumenti per orientarci in esso: il linguaggio ad esempio è un modo con cui noi indichiamo le cose, sebbene non le indichi veramente. C’è quindi una discrasia tra l’utilità dei nostri concetti e la verità delle cose. Per vivere nel mondo dobbiamo utilizzare concetti che però al tempo stesso sono infondati, che di conseguenza ci allontanano da quella che chiamiamo “verità”. È possibile muoversi tra i due poli del vero e dell’utile, ‘salvando’ il nostro intervento nel mondo e al tempo stesso mantenendo una visione lucida e disinteressata sulle cose?

L’essere vincolati a un certo modo di funzionare non ci preclude “La verità”, ma varie verità: ora come ora noi non possiamo accedere a certe forme di verità che sono oltre i nostri limiti cognitivi. Ci sono una serie di mondi che mi sono preclusi e che sono tutti quei mondi di quando sarò morto, cioè di quando non avrò più questi limiti. Si tratta di verità – e non parlo della reincarnazione o del Paradiso – che sono ora innominabili e inaccessibili se non nella “morte in vita” di cui parlano i mistici, una sorta di annullamento del pensiero. Se sia possibile realizzarlo in vita sinceramente non lo so: a seguire quello che dicono i mistici sì, ma io non saprei. Posso dire solo che nel piccolo delle mie esperienze di “coscienza alterata” legate alla meditazione o a casi fortuiti della vita a volte è sembrato di sì anche a me. È però qualcosa di talmente extralinguistico che non lo saprei né giustificare né descrivere, anzi so di per certo che è qualcosa di contraddittorio e ingiustificabile.

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Già dall’ossimoro presente nel titolo si prefigura quella che è poi la conclusione principale del libro: la realtà è contraddittoria e non viene descritta dal principio di non-contraddizione[3]. Qual è il costo nel rinunciare a questo principio al livello personale e, direi, etico? Non c’è il rischio che la sua non validità rappresenti una giustificazione a tutte le incoerenze di ognuno di noi, privandoci di una bussola fondamentale per il nostro agire nel mondo e di un criterio per valutare le azioni degli altri? 

Si tratta di un problema che mi sono posto, ma credo che sostenere la non applicabilità del principio di non-contraddizione alla realtà non ci priva di nessuna bussola, dal momento che siamo comunque costretti a usarlo. La metafora più calzante è quella di un’illusione ottica di cui conosciamo il trucco, ma che continuiamo comunque a percepire allo stesso modo. Noi non possiamo muoverci senza il principio di non contraddizione e quindi continuiamo a giudicare tutte le cose e a valutarle secondo questo strumento, anche se sappiamo che non funziona totalmente. Finché siamo vivi ed umani siamo vincolati a questo principio ed è inimmaginabile uscirne.

Da un punto di vista etico questo ha delle ricadute, ma non sta nel dire che allora possiamo concederci tutto, perché in quel caso lo faremmo solo in malafede. Comporta piuttosto un po’ più di tolleranza nei confronti dell’assurdità della nostra esistenza.

A cura di Giacomo De Rinaldis

[1] Per filosofia analitica si intende quella tradizione filosofica nata a partire all’inizio del XX con i lavori sulla logica e sul linguaggio di Frege, Russell, del Circolo di Vienna e di Wittgenstein e che è prevalente nel mondo anglosassone, sebbene sia ormai attiva anche in altri paesi. Essa si concentra sullo studio del linguaggio rispetto a problemi etici, logici e scientifici piuttosto che elaborare grandi sistemi filosofici che spieghino interamente la realtà.

[2] Il cosiddetto “teorema di incompletezza” del logico Kurt Gödel dimostra che è impossibile dimostrare la coerenza dell’aritmetica facendo utilizzando unicamente i simboli e le regole dell’aritmetica stessa.

[3] Secondo il principio di non-contraddizione è impossibile che una proposizione “A” e la sua negazione “non A” siano entrambe vere. Nel libro il principio viene enunciato così: ‹‹Se una cosa è in un modo, non può essere altrimenti›› (p. 23).

Immagine in copertina per libera concessione dell’autore.
Le due immagini nel testo fanno parte della serie “Meditazioni”, create dall’autore e contenute nel libro.

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