Siamo nella prima metà degli anni Trenta del Seicento. Il Siglo de Oro splende ancora sotto ai raggi della corona spagnola, e il drammaturgo Pedro Calderón de la Barca si giostra alla corte del colto Filippo IV negli splendidi palazzi del re, tra gli invadenti strascichi della Controriforma, le chiacchiere dei cortigiani e il loro gusto per l’artificio, per il riflesso, per il simbolo, per il barocco, per ciò che pur morendo conserva intatta la sua preziosa perfezione. Siamo nel momento più caldo e pittorico del giorno, prima che l’impero si avvii verso il tramonto, ed è qui che arriva il culmine della carriera artistica di Pedro. Proprio allora scriverà l’opera con cui il suo nome sarà ricordato: La vita è sogno.
1966: Pasolini si ammala d’ulcera. Quello che dovrebbe configurarsi come un momento di pausa dà invece avvio a nuovo inizio, una nuova fase creativa, che consentirà allo scrittore di approdare alla riscrittura de La vita è sogno. In due anni – due anni in cui l’esigenza di un ricambio nei linguaggi teatrali fa sì che le richieste dell’establishment si riversino addosso ai letterati –, Pasolini porta alla piena maturazione il proprio interesse per il palcoscenico, e scrive le sue sei tragedie – tra di esse, per l’appunto, Calderón. In questa parentesi, la drammaturgia diventa per l’autore il miglior mezzo di analisi e critica della contemporaneità.
Pasolini aggiunge infatti un mattone all’articolato edificio del proprio pensiero: supera la soluzione ormai inattuale di Brecht, si distacca dalle avanguardie «del Gesto e dell’Urlo»[1] e, individuando nella borghesia il proprio protagonista oltre che il proprio bersaglio, trova la sua personale alternativa in una forma teatrale insieme corporea e letteraria, autobiografica e politica. Da tale processo di elaborazione scaturirà anche il Manifesto per un nuovo teatro (1968), unicum per sistematicità teorica nel corpus pasoliniano, un testo i cui spinosi rapporti con la scrittura drammatica del poeta sono spesso ricondotti a un atto di provocazione non fondante rispetto alla stesura delle sei tragedie.
Sarebbe una follia pensare di poter esaurire nel giro di pochi paragrafi l’opera di due menti quali furono quelle di Calderón e di Pasolini, la cui complessità di pensiero non si limitò al contenuto, ma coinvolse anche l’elaborazione formale dei loro scritti, accomunati dalla scelta del linguaggio poetico prima ancora che teatrale. Si propone quindi qui un confronto che a partire dai legami di intertestualità ricostruisca per lo meno il senso dell’operazione di riscrittura condotta da quel grande intellettuale di cui si celebra quest’anno il centenario della nascita.
Se è vero che spesso Pasolini si servì di riscritture (si pensi all’Orestiade, a Pilade, a Affabulazione, alla produzione cinematografica), è forse proprio nel ribaltamento di prospettive a cui viene piegata La vita è sogno che bisognerà rintracciare gli obiettivi della versione contemporanea. Perché Pasolini agisce su un’opera già perfettamente compiuta, anzi carica di simbologie più o meno trasparenti, tant’è che la parabola del principe di Polonia Sigismondo, protagonista dell’opera, è stata oggetto di svariate interpretazioni: dall’allegoria cristiana alla rivisitazione della vicenda di Edipo, alla rielaborazione dei miti platonici della caverna e dell’auriga, solo per citarne alcune.
Sigismondo, figlio di Basilio, viene rinchiuso in una torre fin dalla nascita, perché viva isolato e ignaro dei propri natali, e il regno si salvi così dal destino tirannico che le stelle predicono al principe. Ma Basilio decide di mettere alla prova il figlio: Sigismondo, addormentato con un sonnifero e trasportato alla reggia, si dimostra un selvaggio abbrutito dalla solitudine, e viene nuovamente calato nel sonno e nel buio della torre, cosicché creda di aver sognato, e non vissuto, quelle poche ore da principe. Una sommossa popolare acclama però il giovane come legittimo erede al trono, e al termine di una battaglia vittoriosa, Sigismondo, raggiunto un atteggiamento umile, non più sicuro della distinzione tra sogno e vita, apparenza e realtà, ma conscio della mutevolezza delle mortali sorti umane, perdona il padre e lo riconosce come suo sovrano.
Il funzionamento di questa comedia sui confini della libertà individuale si costruisce attraverso una struttura di rimandi, schemi binari, simmetrie e opposizioni, che riproducono a livello macrotestuale la doppiezza semantica nascosta dietro ogni immagine: la reggia si contrappone alla torre come la fortuna all’arbitrio umano, come la vita onorevole della corte al suo surrogato disonorevole nel carcere; così Sigismondo, che, metafora del genere umano, parla con la voce dell’istinto in contrasto alla voce della ragione, lamenta la discrepanza tra le ambizioni di libertà del suo cuore e il suo destino di prigioniero. Lui stesso, che più di una volta è definito e si definisce ibrido tra uomo e bestia, porta il segno di due differenti nature.

I binarismi però entrano in crisi a contatto con quel fattore di relativizzazione dell’esperienza che è il sogno. Al ritorno nella torre, l’ambigua consistenza degli eventi vissuti a palazzo induce il protagonista a rivedere le proprie certezze, perché ciò che credeva vero si è rivelato falso, e non c’è motivo per cui non si rivelino tali anche le sue presenti percezioni: Sigismondo lascia allora che la ragione prevalga sull’istinto, la cultura sulla natura, dando inizio a quella trasformazione di sé che lo porterà da selvaggio a eroe civilizzatore. Di fronte alla vanità delle ambizioni, che illudono l’uomo di conquistarsi una propria identità senza fare i conti con la livella della morte, le vecchie coppie di valori si invertono di segno: la vita senza regole si svela per anticamera della morte, mentre la condizione di parziale libertà concessa all’uomo guadagna dignità quando è l’uomo stesso a sceglierla, al prezzo del proprio autocontrollo.
Questo sistema di coppie oppositive si duplica poi nelle vicende che coinvolgono la controfigura di Sigismondo, Rosaura, ragazza che, inconsapevole di essere figlia di uno dei dignitari di Polonia, e violentata dal nipote di Basilio, cerca di recuperare l’onore perduto. Ed è significativo che Pasolini parta proprio da Rosaura per riscrivere La vita è sogno. La prima impressione è che voglia inaugurare il suo testo teatrale all’insegna dello stravolgimento: qui è l’eroina la vera protagonista delle tre parti in cui si potrebbe idealmente suddividere la tragedia, scandite da tre differenti ma consonanti risvegli. Rosaura, personaggio difficile ad adattarsi, apre gli occhi in tre diversi ambienti della Spagna franchista: da figlia in una famiglia aristocratica fascista, da donna povera in una casa di prostituzione, da madre in un contesto piccolo borghese.
Rosaura si sente alienata dovunque riemerga dal sonno. L’intero dramma è pervaso da un clima di latente onirismo, che giustifica i miracolosi passaggi da una realtà sociale all’altra: Pasolini fa della semantica del sogno il perno su cui far ruotare di un altro giro lo schema di significati di cui è portatore il testo di riferimento. Nella comedia il sogno rappresenta non tanto quello che per noi, eredi del romanticismo, è l’evasione, ma il suo contrario, la caverna di Platone, la gabbia, il viluppo, il labirinto dei mille messaggi cifrati che ci invia la realtà, la mancanza di certezze della nostra condizione rispetto all’infinita spinta del cuore umano: l’incertezza stessa è sogno.
Pasolini invece distingue sulla base dell’incertezza: se sogno si considera lo straniamento da cui Rosaura annaspa fuori al risveglio, allora il sogno si fa fuga, devianza, via terza rispetto alla violenza o alla accettazione passiva nella lotta contro al mostro fagocitante del capitalismo borghese; se sogno si considera l’illusoria convinzione di assolutismo di cui si nutre la borghesia a mezzo di omologazione – tutto è sempre stato così ed è giusto e normale che così sia: la nascita è destino –, allora il sogno, ciò che per Calderón simboleggiava il limite dell’esperienza umana, restringe ulteriormente l’ambito del consentito al di qua delle possibilità dell’uomo, in un mondo i cui dei sono il consumismo e le leggi del capitale.
In Calderón Pasolini denuncia con pessimismo la sua più cocente angoscia: il Potere – qui fatto icona nel rappresentante del patriarcato Basilio – si è scoperto invincibile nell’habitat della contemporaneità, la società dei consumi, che ha inglobato e nullificato qualsiasi sforzo di rivolta. Il conflitto tra padri e figli, che nel dramma di Calderón si ricomponeva con la sottomissione di Sigismondo, si dissolve qui in un semplice ricambio generazionale. Mentre il sottoproletariato (l’ideale per cui combattere) scompariva, la borghesia si è servita della ribellione dei suoi stessi rampolli per attuare un ultimo adattamento, finire per sempre in cima alla catena alimentare e ricondurre al proprio seno – ai posti di comando – quegli stessi ragazzi, divenuti adulti e ormai simili ai loro genitori. Come ha osservato Cesare Acutis[2], dove il destinatario diretto de La vita è sogno «leggeva “impara a governarti, e saprai governare”, noi leggiamo: “impara a reprimerti, e saprai reprimere”».
Controllo e repressione passano prima di tutto attraverso la parola. L’afasia con cui Rosaura si ribella al linguaggio normalizzato dopo il suo terzo risveglio porta un ottimo esempio del carattere dei protagonisti-tipo pasoliniani: personaggi scandalo e martiri. D’altra parte, il presente sociolinguistico non ha mai lasciato indifferente Pasolini, che da scrittore e qui da drammaturgo si è sentito chiamato in causa. In particolare, può essere utile menzionare due scene che, in Calderón, esulano dal meccanismo ripetuto del risveglio. La prima si ambienta all’interno del dipinto di Velázquez Las Meniñas: ciò che interessa a Pasolini è scandagliare le dinamiche di autorappresentazione – in senso lato, quindi anche artistica e teatrale – del potere borghese, che si finge immanente alla realtà con la connivenza dell’intellettuale, quello stesso pittore di potenti dipintosi al loro fianco.
L’altra scena, in contrasto con l’artificiosità del dipinto barocco, prende spunto da un genere fotografico tristemente realistico: gli scatti raccolti all’interno dei lager nazisti. Questo secondo quadro parla del secondo strumento di presa e controllo nella società dei consumi: la corporeità, ciò che nella comedia di Calderón calava l’uomo nell’errare della propria brumosa esistenza. «È proprio perché lei ha un corpo, povera Rosaura, che lei può essere il nostro capro espiatorio», viene detto alla protagonista, il cui corpo, come quello di tutti i ribelli, è senza dubbio il più violato nel corso della messinscena, sbattuto in un manicomio, rinchiuso in una casa o inchiodato a un letto in attesa di clienti.
«Non siamo più uomini; non abbiamo più neanche la vita balzana degli animali» – umano e animale, le due sole categorie de La vita è sogno, cui qui se ne aggiunge una terza – «siamo cose di cui gli altri possono disporre». Cambiano i sogni, i contesti, i personaggi, ma il sottofondo della Dopostoria è sempre lo stesso, il macello, il lager. Sigismondo trovava la propria indipendenza dall’ordine del mondo nella scelta di accettare quell’ordine prima di esserne costretto; nella desolazione dei moderni, subdoli lager della società, dice Rosaura, «una sola libertà ci rimane: quella di tradirci. […] Vogliamo essere noi i primi aiutanti dei nostri assassini».
Elisa Ciofini
Bibliografia:
- P. Calderón de la Barca, La vita è sogno, traduzione, prefazione e commento di D. Puccini, Garzanti, 2003
- C. Acutis, Un eroe della cultura, in P. Calderón de la Barca, La vita è sogno, Einaudi, 1980
- C. Samonà, Ippogrifo violento, Garzanti, 1990
- F. Meregalli, Introduzione a Calderón de la Barca, Laterza, 1993
- P. P. Pasolini, Calderón, in P. P. Pasolini, Il teatro vol. I, prefazione di O. Ponte di Pino, Garzanti, 2016
- P. P. Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, Nuovi Argomenti, gennaio-marzo 1968
- S. Casi, I teatri di Pasolini, Ubulibri, 2005
- (A cura di) S. Casi, A. Felice, G. Guccini, Pasolini e il teatro, Marsilio, 2012
[1] P. P. Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, Nuovi Argomenti, gennaio-marzo 1968
[2] C. Acutis, Un eroe della cultura, in P. Calderón de la Barca, La vita è sogno, Einaudi, 1980
Foto di copertina: dominio pubblico, https://it.wikipedia.org/wiki/File:Pier_Paolo_Pasolini2.jpg (dettaglio)
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