Trilogia della guerra, Agustín Fernández Mallo
(Utopia, 2022 – Trad. Silvia Lavina)
Il primo dei tre racconti che compongono Trilogia della guerra, ultima fatica letteraria di Agustín Fernández Mallo, si apre con la menzione di una quest peculiare. Un amico del narratore si è recato in Tanzania, nei pressi del Lago Tanganica, per studiare il silenzio assoluto. Poco più tardi scomparirà senza lasciare traccia, non prima di aver conclamato il fallimento della propria missione.
In natura il silenzio non esiste, afferma l’amico senza nome; al contrario, una musica cadenzata e costante ci accompagna, sempre. Non della ricerca, ma del suo risultato si fa carico l’intera opera narrativa di Mallo, composta da un continuo brusio di rimandi e segnali che ne attraversano le oltre quattrocento pagine. Ci sono i suoni della natura, ma soprattutto c’è l’impronta antropica, che scava e modella i luoghi e persiste nel tempo e al tempo. L’impronta dell’uomo è un’impronta di distruzione e, spesso, di dolore. La guerra del titolo è ciò che collega il genere umano, e ciò che collega i tre racconti: il primo è ambientato in un’isola già campo di concentramento durante la guerra civile spagnola; il secondo ha per protagonista un reduce del Vietnam, che rievoca la sua vita in una atmosfera di costante paranoia ; il terzo si snoda tra le spiagge della Normandia protagoniste del D-Day, sulle tracce di una donna che vuole rivivere una vacanza fatta col suo compagno, ora sparito nel nulla .
Il gioco dei riferimenti non si arresta all’esperienza bellica. Lo stile asciutto e secco di Mallo bilancia un universo narrativo costruito come un sogno dai molti livelli, qualcosa di analogo al meccanismo di Inception, o, letterariamente parlando, ai romanzi di Sebald (autore citato nella Trilogia). Come in Sebald – e al contrario di ciò che avviene, ad esempio, nell’epica omerica, dove la digressione ha la forma di un cerchio perfetto[1] – in Mallo ogni nuovo livello non si chiude mai perfettamente sul precedente, lasciando al lettore una sensazione di leggero sfasamento. Seguire le circonvoluzioni dei tre protagonisti senza nome non richiede tanto una lettura attenta, ma piuttosto una lettura arrendevole.
Fidarsi di Mallo non ricompenserà il lettore, si è intuito, con la soluzione a ogni interrogativo. Infatti, l’idea – già postmoderna – di un romanzo senza fine e ricolmo di citazioni, rimandi storici e altri media viene trasformata in qualcosa di meno e qualcosa di più: qualcosa di meno, perché ogni coincidenza avviene per caso, qualcosa di più, perché Mallo prende il caso assolutamente sul serio.
«[…] La parte più preziosa di quanto conosciamo delle civiltà passate è costituita proprio da ciò che ci hanno trasmesso senza volerlo, ciò che hanno trasmesso per caso, ciò che hanno gettato e che non si sono preoccupati di raccogliere o riciclare, la loro spazzatura» (pag.84).
Morte, distruzione e spazzatura sono la nostra memoria. Accennata, sussurrata o tuttalpiù recitata ossessivamente nel monologo di un pazzo dalle fattezze di Salvador Dalì (come avviene nel primo racconto), la presenza dei nostri morti, che morti non sono mai per davvero, affastella le pagine dei tre racconti e ci parla attraverso le scorie, materiali e immateriali, che produciamo. Il passato è la nostra ombra, che può precederci, schiacciarsi o proiettarsi in un futuro che ancora non ci riguarda. A riprova di ciò vi è anche l’oscillazione dei tempi verbali, dal passato al presente e ritorno, anche all’interno dello stesso paragrafo.
Il discorso sulla spazzatura riecheggia quanto già scritto in un romanzo di venticinque anni fa, Underworld, di Don DeLillo. In Underworld i rifiuti sono l’archeologia della società: è stata la spazzatura a nascere per prima, e ha costretto gli uomini, con la sua invadenza e la sua crescita senza fine, a organizzarsi, a costruire una struttura che prevedesse aziende di rimozione e contenimento. La spazzatura – tutto quanto c’è di sotterraneo e nascosto, che si tratti del vomito di George Bush senior o di souvenir lasciati bruciare su una stufa – , in Underworld come in Trilogia della guerra, connette ogni aspetto della nostra vita, ed è la traccia materiale della nostra storia. Eppure, mentre Underworld usa questi rimandi per risalire l’esperienza individuale e collettiva della storia americana, e nella spazzatura (e nel sottosuolo del titolo) trova la possibilità di una rigenerazione (mai definitiva, mai assoluta), Trilogia della guerra -non offre che l’impossibilità di significare un tutt’uno coerente, e una sensazione sottile e angosciosa accompagna le coincidenze che si diramano come un sogno nei tre racconti simili e diversissimi al tempo stesso.
Imploso l’ordine cronologico, mescolati causa ed effetto, il riverbero dell’esperienza traumatica della guerra si fa letteratura nella forma e nel contenuto. Come altrettante vittime di PTSD, i protagonisti dei tre racconti sono infestati dal loro personale passato e dal passato violento di cui sentono gli echi. Brevi epifanie li accendono, luminose come fuochi d’artificio e presto obnubilate da desideri, ansie, conflitti e momenti allucinatori; nella rete di ciò che è ambiguo, marcio o crudele la Trilogia rivela ciò che non potremmo mai arrivare a concepire.
[1] Daniel Mendelsohn Tre anelli, Einaudi, Torino, 2022.
Alessia Maria Sciannamblo