Nannetti – La polvere delle parole, Paolo Miorandi
(Exorma, 2022)
Nannetti – La polvere delle parole si presenta dal principio come un libro intenso, dal ritmo rapido, affannoso, che scivola tra le dita come sabbia e non si lascia afferrare – serie di elencazioni, accumuli, descrizioni che diventano verbosità snocciolate, icastiche, tanto precise da ferire gli occhi; quello che all’inizio può sembrare un capriccio di stile si rivela man mano più di un semplice aggancio a una certa tradizione, e addentrandosi in questa fitta foresta di parole si resta sempre più invischiati in un qualche struggimento dello spirito, dolce e malinconico.
Questa è la storia di un uomo, Fernando Nannetti, meglio noto come Oreste Fernando Nannetti, o con l’acronimo NOF4; di un uomo, e di altre migliaia come lui, uomini e donne nascosti dalla società come polvere sotto il tappeto, alla ricerca di una cura per non si sa che cosa, se una malattia o una disposizione dell’animo o una disobbedienza, insofferenza a certe regole del vivere comune; alla ricerca di una cura, o neanche più di quella, alla sola ricerca di un nascondiglio dove morire lentamente, spogliati della pelle che si indossava all’ingresso, accompagnati da una sentenza e un destino scritto su una cartella clinica; spesso ineluttabile, se uno non aveva la disponibilità economica necessaria a comperarsi la guarigione, e per meglio dire la libertà.
“Dunque vagabondi, alcolisti, detenuti politici, disertori, fratelli poco avveduti espulsi dalle famiglie per questioni di eredità, donne dai costumi fastidiosamente liberi, criminali ai quali un abile avvocato aveva evitato la galera, un intero catalogo di miserie umane che, se lasciate vagare indisturbate, potevano entrare nelle case a intorbidire i sogni dei cittadini o procurare loro un genere di prurito difficile da grattare via, l’orrore per l’incomprensibile e l’inquietudine che sempre desta la fragilità dell’umano, soprattutto di quella parte dell’umano che si dice essere la più nobile e che ci distingue dagli esseri cosiddetti inferiori” (pag. 78).
Prima di leggere questo libro non sapevo nulla di Nannetti, poco sulla legge Basaglia e sul dibattito che la precedette e accompagnò, e ancor meno sull’art brut. Adesso sento non solo di essere arricchita di un’esperienza umana, uno spazio di esistenza da capire in più, ma anche di avere imparato qualcosa, in un equilibrio tra racconto e informazione che scorre in modo molto fluido e non appesantisce la scrittura.
Nannetti è stato “il più noto recluso del manicomio di Volterra”; approdatovi nel 1959, vi rimase fino al 1973, quando fu accolto in una struttura per ex internati. Durante gli anni di reclusione, si dedicò a un’attività insolita, non tanto per la necessità che esprime, quanto per le modalità di attuazione: incide, principalmente sugli intonaci esterni del padiglione Ferri, ‘pagine’ fitte di scritte e disegni, un vero e proprio libro di pietra, servendosi della fibbia della cintura, componente della divisa degli internati e unica matita, penna, calamaio a sua disposizione. Scrive moltissimo e i medici lo lasciano fare, perché ‘finché scrive non dà noia a nessuno’; si firma astronautico ingegnere minerario, capta segnali dal “sistema telepatico”, descrive storie fantascientifiche, astronavi, razzi sulla luna, congiunzioni astrali e minerarie.
Descrive stuoli di familiari, luoghi di nascita, di vita, eventualmente di morte e sepoltura, i loro lineamenti e colori; agli stessi scrive lettere e cartoline, chiedendo qualche lira, parlando di quando uscirà; solo al mondo, scrive a stuoli di parenti immaginari missive che finiranno bruciate. Una scrittura frenetica, febbrile, continua. Un infermiere, Aldo Trafeli, s’interessa a quest’uomo “sempre così solo”, gli parla spinto inizialmente dalla compassione, poi dalla curiosità; impara a leggere i graffiti di Nannetti, e ne diventerà traduttore e per certi versi un custode.
“Aldo vede e si domanda se quello che tutti considerano l’insensato intrattenimento di un pazzo voglia dire qualcosa. Compie allora l’azione più semplice, ma per certi versi sconvolgente nell’economia delle relazioni manicomiali dove solo chi sta dalla parte dell’istituzione ha il privilegio di attribuire significato alle cose, si avvicina a Nannetti, gli parla e lo sta ad ascoltare. […] Aldo Trafeli compie un gesto poetico, che come sempre è un gesto di accoglienza e ospitalità verso ciò che non si comprende, che non si comprende ancora, che non si comprende del tutto, che forse non si comprenderà mai” (pag. 123).
Miorandi (che nella vita è psicoterapeuta) alterna principalmente tre livelli di narrazione, spesso passando dall’uno all’altro in modo molto improvviso e brutale: quello di Nannetti, del suo flusso di coscienza o delle parole incise sul suo libro di pietra, quello di Trafeli, che racconta della sua amicizia con NOF4 e della vita all’O.P.V., Ospedale Psichiatrico di Volterra, e il suo di narratore che viaggia avanti e indietro negli anni nel tentativo di ricostruire una esperienza umana, restituirle voce e renderle giustizia. Riuscendoci, a mio parere, benissimo. Le sue parole, nell’interezza del volume, sono accompagnate e per così dire completate dalle fotografie di Francesco Pernigo, che riproducono i luoghi del racconto, seppure in una faccia provata dal tempo e dall’incuria.
La polvere del titolo è molte cose. È la polvere dell’intonaco inciso; è la polvere del tempo che ci sfugge come sabbia in una clessidra; è la polvere che si posa sui ricordi sempre più lontani, e li sbiadisce annullandone tutta l’intensità che avevano nel momento in cui avvenivano; è la polvere, sola polvere che diventiamo quando nessuno ha più memoria di noi; è la polvere che ricopre gli oggetti come scheletri artritici nei padiglioni del manicomio ormai dismesso; è la ‘polvere della pazzia’ che gli ex alabastrai della città, convertiti dalla crisi del mestiere in guardiani di matti, si scrollano dal grembiule a fine turno, per essere sicuri di non portarsela a casa.
La scrittura di Miorandi, a tratti molto delicata, può ferire dolcemente. È per pura casualità che, durante la lettura di questo libro, qualche giorno fa la riproduzione casuale di Spotify mi ha riproposto Sergio dei Baustelle. Al terzo, quarto ascolto ho notato che alcune cose sembravano richiamare la storia di Nannetti – dopo qualche ricerca ho appurato che il Sergio del titolo si chiamava effettivamente Sergio, non Fernando. La lascio comunque qui, come complemento auditivo a una storia che ho letto col cuore pieno, nella consapevolezza che “ciò che separa ogni vita tollerabile da una vita disgraziata è in fondo una distanza minima”.
E il cielo è blu, lo dici tu, nessuno è blu, nessuno più, non c’è la cura
e il mondo guarda ed io non so guardare il mondo e prenderlo
se sono triste non lo so, vivo
Mica mi capiscono se descrivo i missili
e gira il mondo ed io non so se sono un uomo oppure no
mi chiamo Sergio, e come te, vivo
Alessia Angelini
Immagine in evidenza: foto di Rene Asmussen da Pexels