“Niketche”: ballo per una sorellanza universale

Niketche. Una storia di poligamia, Paulina Chiziane
(Trad. Giorgio de Marchis – La nuova frontiera, 2022)

Niketche_CopertinaA vent’anni dalla prima pubblicazione, La Nuova Frontiera rinnova l’edizione di Niketche. Una storia di poligamia con una fresca traduzione dal portoghese di Giorgio de Marchis e una vivace copertina illustrata da Irene Rinaldi. Il titolo era valso il prestigioso premio José Craveirinha all’autrice, Paulina Chiziane, oltretutto detentrice del primato di scrittrice mozambicana ad aver pubblicato un romanzo, nel 1990. Il 2021 l’ha vista vincitrice del Premio Camões, il più importante premio letterario del mondo lusofono, assegnatole all’unanimità citando, tra i suoi meriti, quello di dedicarsi alle problematiche delle donne africane. Di fatto, Niketche è un romanzo rappresentativo di questo lavoro, che ha composto un inno all’emancipazione e alla sorellanza, un canto che si leva dal Mozambico e abbraccia l’universo intero. 

Protagonista e voce narrante di questo canto di dolore e speranza è Rami, che dopo vent’anni di matrimonio scopre il tradimento di  suo marito Tony, capo della polizia. Furiosa, Rami decide di affrontare la rivale, presentandosi a casa sua, ma l’incontro finisce tra graffi, percosse e una rivelazione ancora più sconvolgente. Non solo Tony ha fatto dei figli con Julieta, ma questa fa sapere a Rami che c’è anche una terza donna con cui contendersi l’amore del poliziotto. Seguendo questa pista, la protagonista viene a conoscere la terza amante, Luisa “la desiderata”, poi la quarta, Saly “l’ambita” e infine Mauà Sualé, “l’amata”. Con tutte queste donne, Tony aveva creato famiglie parallele e illegittime.

Il dolore, la rabbia, l’amore e la disillusione vengono sviscerate in un flusso di coscienza in cui la narratrice tenta di capire il motivo di quella perdita: era sempre stata una moglie bella, docile, servile, ubbidiente, non era quello ciò che veniva richiesto ad una moglie? Questo è quello che pensa Rami, cresciuta nel sud del Mozambico, intriso di miti e credenze popolari che si sono dovute scontrare con la colonizzazione europea, anche nella sfera sessuale e amorosa.  

«Ho imparato cose che non servono a niente. Pure scuola di danza classica ho fatto – pensate un po’! Ho imparato tutte quelle cose da signore europee, come preparare i biscottini, ricamare, la buona educazione, tutte cose da salotto. Sulla camera da letto, niente! La famosa educazione sessuale si riassumeva nello studio dell’apparato riproduttivo, il ciclo di qua e il ciclo di là. Della vita a due, nulla! I libri scritti da preti invocavano Dio in tutte le posizioni. In quella a due, però, mai! E per strada c’erano le riviste pornografiche.» (p. 48)

È grazie all’incontro con una maestra d’amore, una donna del nord, che Rami rinasce, si sveglia dal torpore in cui la cultura cui apparteneva l’aveva fatta assopire: impara che l’amore è fatto anche di corpo, di sessualità e che la donna ha due cuori, «uno superiore e l’altro inferiore» (p. 40) – mentre lei pensava ne avesse solo uno, il cuore dell’amore romantico. Questo, le donne del nord lo imparano con i riti di iniziazione, usanza che ha resistito alla colonizzazione, al cristianesimo e all’islam, assieme ad altre come l’allungamento dei genitali o l’escissione femminile; altre ancora legate al cibo (all’uomo vanno servite le parti nobili della gallina, mentre alle donne le ali e gli scarti): certe tradizioni «resisteranno sempre. Perché sono l’essenza del popolo, l’anima del popolo. Grazie a loro c’è un popolo che si afferma di fronte al mondo e mostra di voler vivere a modo suo.» (p. 51)

Nel solco di questo interessante viaggio tra gli usi e i costumi sessuali del Mozambico tradizionale e colonizzato, si inscrive quello che è il tema principale del libro, ovvero quello della poligamia. Nel sud, l’uso del lobolo per consacrare i matrimoni è rimasto in vigore, mentre la poligamia è stata resa illegale in favore della monogamia cristiana. «Ma gli uomini reclamano il privilegio perduto e praticano una poligamia illegale, informale, senza rispettarne gli obblighi» (p. 102).

Con una mossa sorprendente, Rami pensa di reagire a un amore infedele sottoponendo Tony agli obblighi dell’amore poligamo. L’autrice intesse infatti abilmente un’ampia riflessione sugli usi della poligamia, facendone una narrazione controversa e infine edificante: Rami riunisce a sé tutte le sue rivali, tende loro la mano invece di farci la lotta e le fa banchettare assieme a lei alla tavola dell’amore di Tony, accettando di riportare in auge una pratica fortemente patriarcale e umiliante. Ma quella di Rami è una visione che va oltre, perché il viaggio all’interno del proprio dolore le fa conoscere quello delle sue rivali e delle donne tutte, ed è dunque nell’unione, nella sorellanza e la solidarietà che trova riscatto per sé e per le altre punte dell’esagono coniugale. 

«Siamo cinque. Uniamoci in un fascio e formiamo una mano. Ognuna di noi sarà un dito, e le grandi linee della mano la vita, il cuore, la fortuna, il destino e l’amore. Non saremo più così indifese e potremo afferrare il timone della vita e tracciare il nostro destino.» (p. 118)

In una società fatta per abbassare lo sguardo delle donne, che interiorizzano la cultura della rassegnazione e del silenzio, Rami rompe la catena della sofferenza e riporta letteralmente alla luce le sue quattro rivali e, di riflesso, anche sé stessa: toglie da una condizione di illegittimità mogli e rispettivi figli, dona loro una famiglia socialmente riconosciuta e insieme imparano l’indipendenza economica. Così, la prima moglie rinuncia ai privilegi che avrebbe in quanto tale, e decide di non riprodurre la tirannia del patriarca, scegliendo invece di condividere con le altre donne la scoperta del proprio valore e di ribaltare le regole della poligamia a loro favore. 

La scrittura di Chizane è ruvida, colorata; si nutre della terra e del cielo e con un ritmo musicale e incalzante ci fa immergere in una cultura altra, che si scopre però incredibilmente vicina. Ci costringe a un punto di vista che non scende a patti con una visione ristretta entro i rassicuranti confini europei e, anzi, si apre all’universo intero. Attraverso la voce di Rami, l’autrice immagina di riscrivere la teologia facendole rivolgere una preghiera ad una madre celeste – Dio non ha una moglie, dice, o se ce l’ha, è rinchiusa nella cucina celeste –  per tutte le donne vittime di una cultura patriarcale e violenta: «Madre nostra che sei nei cieli, santificato sia il tuo nome. Venga il tuo regno – quello delle donne, è chiaro –, venga a noi la tua benevolenza, non vogliamo altra violenza» (p. 76). Il racconto di Rami si fa corale dal momento che accoglie in sé la sofferenza delle donne tutte – zittite, violentate, abusate, annullate – e in un canto collettivo libera Vuyazi, principessa ribelle, dea e eroina, prima donna ad aver lottato per «il diritto di esistere, tanto in amore come nel cibo» (p. 326). Il messaggio di sorellanza universale di Chiziane rimane attuale anche dopo vent’anni e la sua voce risuona potente evocando il sogno di un circolo di donne e uomini che, insieme, «ballano il niketche della vita» – le prime finalmente accolte alla nascita come i maschi, con cinque rulli di tamburo, e i secondi capaci di gustare la bellezza delle cose proibite, come il pianto e le ali di gallina.

Beatrice Palmieri

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