“I Robinson italiani”: un’enciclopedia dell’avventura

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Nella vastissima produzione narrativa di Salgari può accadere di imbattersi in opere colpite dalla ribalta dei riflettori, ma si può anche inciampare in più defilate zone d’ombra, dove si radunano gli scritti che il tempo non ha consacrato alla stessa popolarità di massa.
Anche se parlare di successo, nel caso dell’autore veronese, merita sempre prudenti precisazioni.

Infatti, nonostante confezionasse romanzi a un ritmo vertiginoso, da capogiro, con una penna invasata e una dedizione totalizzante, non fu mai gratificato dagli editori: le sue storie vennero tacciate di essere diseducative perché piene di ingiustificata violenza; in più fu accusato di scrivere male, con uno stile raffazzonato e sbrigativo.

La febbrile eccitazione con cui però lavorava senza sosta, tra studio e scrittura compulsiva, si riversava tutta nei suoi scritti. Perciò, ora come in passato, chi li legge non può non avvertire nella pancia questa irrequieta passione.

Quindi, date le diverse gradazioni di popolarità di cui gode l’opera dell’autore, se nell’immaginario comune viene associato a eroi vigorosi quali Sandokan o il Corsaro nero, nondimeno da altri suoi romanzi fanno capolino personaggi altrettanto interessanti: outsider che non appartengono a quell’universo piratesco.
Come accade ne I Robinson italiani, dove viene raccontata l’altalenante avventura per la sopravvivenza di tre naufraghi italiani, presenza piuttosto atipica in Salgari.

In questo esperimento narrativo si fondono insieme ingredienti che sempre nutrono le sue storie, ma con un dosaggio originale: c’è sì l’ambientazione esotica di un’isola piena di pericoli, e la paura dell’essere umano di fronte a tanta indomata, selvaggia natura; ma, incastonati al centro di questo scenario, che palpita così spesso nelle opere dello scrittore veronese, stavolta s’incontrano tre italiani.
Uscita nel 1896, si capisce in che misura questa scelta fosse intinta dello spirito del suo tempo, nazionalistico e positivista. Pensiero che si smaglia con il tempo, e rivela le sue crepe in uno scritto successivo, come lascia intravedere la chiusa della prefazione di Antonio Esposito:

I Robinson italiani è allora il romanzo con cui Salgari celebra il progresso scientifico ed esalta le potenzialità espressive dell’uomo. Un’idea che, anni dopo, quando pubblicherà Le meraviglie del Duemila, andrà a riconsiderare, tenendo conto di quali rischi può correre l’essere umano quando sfida le basilari leggi della natura.

Protagonisti della storia sono Enrico, un marinaio genovese, Piccolo Tonno, un mozzo napoletano ed Emilio Albani, un signore veneziano.
Il lettore non s’inganna se scorge in quest’ultimo personaggio un vero e proprio cammeo dell’autore, che si specchia in lui a partire dal nome, prestandogli in più tutta la sua cultura e il suo sapere enciclopedico.

I tre viaggiano sulla stessa nave che nei primi capitoli naufraga, facendoli sbarcare fortunosamente su un isolotto della Papuasia. Senza poter fare affidamento su alcun mezzo, l’avventura dei tre ha inizio in maniera ancor più difficoltosa e annaspante di quella di Robinson Crusoe, personaggio che citano dichiaratamente e cui si paragonano, mentre si arrabattano nel rivivere una parabola tanto simile alla sua.

Tuttavia Emilio ha ereditato dal personaggio di Daniel Defoe tutta la zelante e persino superuomistica voglia di farcela coi suoi propri mezzi.
Gli strumenti di cui dispone non sono ricchezze materiali, giacché quasi tutte le risorse sono state inghiottite dal mare; ciononostante può far leva sul poliedrico patrimonio delle cose che sa. Le sue spiegazioni ogni tanto si colorano del tono carismatico di vere lezioni, spaziano dalla zoologia alla botanica, rivelano senso pratico ma anche arguta inventiva.
L’intelligenza di Emilio si adatta alle circostanze e negozia continuamente con il destino che è toccato in sorte ai suoi personaggi.

Attraverso il parlato dei tre protagonisti non emergono mai le differenze linguistiche che realisticamente dovrebbero percepirsi. I dialoghi s’increspano di qualche espressione dal rispettivo italiano regionale (in maniera piuttosto comica e teatrale, Piccolo Tonno di tanto in tanto impreca gridando ‘Lava del Vesuvio!’, o rimpiange con nostalgia il suo caffè) ma per il resto la lingua procede piana, lineare.
Tuona solo in corrispondenza delle descrizioni d’ambiente, ossia quando il narratore annuncia marosi o agguati; lì la tensione aumenta e lo stile si surriscaldanda con il precipitare degli eventi.

Dunque è difficile non rimanere suggestionati dalle opere di Salgari tanto quanto da lui stesso, personaggio romanzesco al pari di quelli che ha inventato, per la sua vita di finzioni e viaggi virtuali: si faceva chiamare il Capitano ma non salpò mai, il mappamondo che si squaderna nelle sue storie è frutto di bulimico studio e di immaginifica voglia di proiettarsi lontano.
Ed è difficile non ripensare alla maniera atroce in cui si uccise, tagliandosi gola e viscere con un rasoio da barba.

D’altra parte, dati come questi ingolosiscono sempre i lettori, tentati dal ‘ficcanasare’ nella parabola biografica degli autori. Tuttavia, se si lasciano da parte queste informazioni, ciò che in primo luogo rapisce delle storie di Salgari è l’energia vitalistica che ribolle dentro le trame.

Nel catalogo della casa editrice napoletana Alessandro Polidoro si incontrano anche Le novelle di marinaresche di Mastro Catrame. Entrambe le opere sgusciano fuori dal novero di quelle più mainstream dell’autore, per cui chi ama il genere turbinante dell’avventura non può che gioire di questo riaffioramento e sperare che, nell’ambito di tale progetto di recupero e «restituzione» ai lettori di classici meno noti, altri capolavori salgariani tornino a galla.

Viviana Veneruso

Foto di copertina di Pok Rie: https://www.pexels.com/it-it/foto/cantiere-navale-1576653/

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