Una vita intera non basterebbe per assolvere all’impresa di stilare un elenco delle molteplici riscritture cui è stata sottoposta l’opera di Shakespeare. A riprova dell’universalità del bagaglio di riflessioni prodotte dal Bardo, potremmo affermare che non esiste angolo del mondo toccato dalla cultura occidentale da cui non sia scaturita almeno una particolare prospettiva sull’universo shakespeariano. È però curioso che, nel panorama italiano contemporaneo, si sia imposta come pratica di successo quella di riscrivere o tradurre il teatro di Shakespeare in dialetto, con una scelta evidentemente meditata, se è vero che ormai le lingue dialettali sono scivolate in subordine rispetto alla lingua nazionale.
Certo, il fenomeno, che non sempre vede la realizzazione di versioni d’autore o per lo meno di riscritture di valore, può essere ricondotto al generale spirito di rivalutazione delle zone emarginate dell’esperienza (linguistica, in questo caso) che dalla seconda metà del Novecento ha coinvolto certi ambienti intellettuali. Ma questo non basta. E nemmeno basta menzionare la capacità che il dialetto e la lingua shakespeariana avrebbero in comune di procedere per immagini, cosa che renderebbe il dialetto l’interlocutore perfetto per la traduzione di testi dalla profonda ricchezza semantica.
Sicuramente, tra le riscritture più note degli ultimi cinquant’anni ad aver insistito sul versante della lingua, vi sono quelle di Testori (L’Ambleto, Macbetto), che però non si è affidato a un unico idioma o dialetto per rileggere Shakespeare, ma si è servito di una sorta di impasto tra più parlate. Invece, tra le traduzioni vere e proprie non si può non nominare quella fatta da De Filippo, che traspose La tempesta in napoletano nel 1984. Agli inizi degli anni duemila è stato anche pubblicato il Troppu trafficu ppi nenti (Molto rumore per nulla) tradotto in siciliano da Andrea Camilleri, con la collaborazione di Giuseppe Dipasquale.
Per quanto riguarda La tempesta in napoletano, si tratta dell’ultimo frutto di un lungo dialogo che De Filippo ha intrattenuto con l’opus shakespeariano nel corso della sua carriera, tra riprese e adattamenti. Troppu trafficu ppi nenti rientra invece in una sorta di trittico di riscritture teatrali realizzate dal duo Camilleri-Dipasquale, tra le quali inoltre faceva la propria comparsa un’altra versione ancora de La tempesta – in quest’ultima, tuttavia, mai pubblicata, la conversione dall’inglese al siciliano era solo parziale, relegata alle voci dei personaggi più umili o buffoneschi, mentre nobili e creature magiche si esprimevano in italiano.
Preso per assunto il fatto che qualunque traduzione, seppur fedele, comporta la creazione di un testo nuovo e non coincidente con quello di partenza, è indubbio che personalità dalla forte presenza letteraria e che hanno creduto nel potere creativo del dialetto come quelle di De Filippo e Camilleri avessero in mente un progetto ben preciso già prima di mettersi al lavoro, e non si sentissero obbligati a seguire pedissequamente gli originali. Così, in un delicato equilibrio tra aggiunte e sottrazioni, i due testi ricalcano a piacere i loro archetipi inglesi: piuttosto che di traduzioni in senso stretto potremmo parlare di traduzioni a maglie larghe, che tengono conto più del mezzo d’arrivo – e del “carattere” del dialetto da loro scelto – che di quello di partenza.
Tuttavia, sotto la maggior parte degli aspetti, La tempesta di De Filippo e Troppu trafficu ppi nenti sono aderenti al dettato shakespeariano, e non introducono alcuna variazione nella trama, o nella sequenza delle scene e dei dialoghi. Ragion per cui può essere sufficiente ricordare che ne La tempesta il mago e duca di Milano Prospero, spodestato dal fratello Antonio in combutta col re di Napoli e cacciato insieme alla figlia Miranda su un’isola abitata da creature magiche, dopo dodici anni dal suo esilio fa naufragare sull’isola la nave che trasporta Antonio, il re e il principe Ferdinando di ritorno dall’Africa. Il “soggiorno” dei tre sull’isola porterà, non senza difficoltà e scossoni, alla riappacificazione tra i fratelli e al matrimonio tra Miranda e Ferdinando. Quanto a Molto rumore per nulla, il titolo allude ai modi da commedia degli errori con cui scherzi e intrighi complicano la storia d’amore tra due coppie di giovani: Claudio e Ero, il cui imminente matrimonio è ostacolato dalle accuse di infedeltà ordite contro la ragazza, e Benedetto e Beatrice, che non si sopportano, ma che, una volta convinti dagli amici di essere oggetto d’amore l’uno dell’altra, finiscono per innamorarsi.

Se De Filippo e Camilleri-Dipasquale non si distaccano dalle commedie originali eccetto che nella libertà idiomatica lasciata alle involuzioni e ai colori del dialetto, ci si potrebbe chiedere quale sia il valore – e di conseguenza la necessità – del loro lavoro di traduzione. Il gioco della significazione elude sistemi concettuali a ampio raggio e agisce al livello di tanti piccoli spostamenti: quello che gli autori vogliono trasmettere rispetto a Shakespeare e quello che di Shakespeare vogliono riproporre non sta tanto nella metamorfosi conseguente all’operazione di traduzione, ma nei significati implicati dall’operazione stessa – cosa che vale soprattutto per uno scrittore come Camilleri, che si è sempre concentrato più sulle possibilità creative della lingua e delle cadenze dialettali che sulla possibilità di innovare le strutture narrative.
In questo caso il contesto ha almeno tanto peso quanto il testo. Dunque, non si può prescindere dall’analisi degli apparati paratestuali: sia De Filippo che Camilleri-Dipasquale ci consegnano, nelle edizioni a stampa, le loro istruzioni per l’uso, una Nota del traduttore al termine de La tempesta e un’Introduzione all’inizio di Troppu trafficu ppi nenti. In quest’ultima, Camilleri e Dipasquale inscenano una variante molto originale del cliché del manoscritto ritrovato: ipotizzano l’identità tra il drammaturgo inglese e un certo Michele Agnolo Florio Crollalanza, di cui avrebbero riscoperto alcune pagine in siciliano cinquecentesco incredibilmente simili alla redazione inglese di Much Ado About Nothing. Tra autori-traduttori e lettore si firma qui una sorta di patto: nel momento in cui il lettore accetta che sia stato il Crollalanza, fuggito in Inghilterra, a tradurre il proprio cognome in Shakespeare, e non Camilleri e Dipasquale a tradurre Much Ado About Nothing, si sancisce il ribaltamento dei rapporti tra archetipo e derivato.
Non che si tratti di una bizzarria gratuita. Da questa premessa discende tutto un implicito gioco di maschere e di rispecchiamenti perfettamente in tema con il contenuto della commedia – dove travestimenti, scambi di identità, morti false e resurrezioni sotto mentite spoglie la fanno da padrone: questo perché il gusto per la complicazione del semplice, per l’intrigo, per la chiacchiera, per la sceneggiata e la battuta, insomma per il “molto rumore” del titolo, teatro quotidiano in cui si spende una vita che fino alla morte è un trafficu ppi nenti, viene ascritto da Camilleri e Dipasquale alle presunte origini siceliote del testo.
D’altronde la commedia era stata ambientata già da Shakespeare a Messina, e Camilleri e Dipasquale hanno gioco facile a ricamare sull’immagine caratteriale del siciliano che vuole che tutto cambi perché tutto resti sempre lo stesso: ma propinando così una commedia vecchia in vesti nuove, con quella che però definiscono una mera trascrizione – come a dire che lo spirito del dialetto era latente già nel testo shakespeariano, oppure che qualunque stralcio di Sicilia o di mondo può contenere materiale a sufficienza per uno Shakespeare –, dimostrano il potere realistico ed empatico del dialetto, nelle cui sonorità la commedia si fa subito credibile e vicina al quotidiano.
Anche De Filippo si affida alla forza drammatica e comunicativa della propria parlata: la traduzione de La tempesta in napoletano costituisce per lui l’occasione per scrivere un lungo discorso sul suo mestiere di teatrante. Il modo con cui nella Nota lo scrittore dichiara di aver gestito il processo di elaborazione rivela la sua fiducia nella capacità generatrice della parola: la moglie, partendo dall’inglese, stendeva una versione in italiano letterale, tradotta parola per parola, e così lui provvedeva a trasformare una brutta fedele in una bella infedele, con una sorta di magia linguistica, che equipara i poteri dello scrittore a quelli di Prospero – tipico personaggio eduardiano, sognatore e incompreso all’interno della sua stessa famiglia. Tanto ne La tempesta quanto in Troppu trafficu ppi nenti è la parola a creare la realtà, sotto forma di sortilegio o di inganno: come i qui pro quo di Troppu trafficu sono causati il più delle volte da false testimonianze, così il mondo esterno – nello spazio e nel tempo – all’isola de La tempesta esiste solo nei discorsi di chi, chiuso nell’involucro onirico dell’ambientazione, lo evoca.
Senza dubbio uno dei motivi giuda delle scelte dialettali di De Filippo, che elesse il napoletano del Seicento – quello immaginifico dei racconti del Basile, per intendersi – a lingua d’arrivo, è l’amore per la meraviglia del teatro. E in effetti il dialetto, quando usato con sapienza, suscita la meraviglia nei lettori assuefatti all’italiano. Se il meccanismo dialettale, applicato al verso shakespeariano, funziona bene, è anche perché, seppur in ambito nostrano, il dialetto riesce a restituire l’estraneità del testo di partenza. Ma c’è ancora dell’altro. Il dialetto non comunica solo per straniamento; paradossalmente, comunica anche attraverso il suo opposto, la familiarità.
Il dialetto infatti si associa a fattori identitari. Non a caso, sempre nella Nota, De Filippo spiega di aver prediletto La tempesta rispetto ad altre opere di cui avrebbe potuto dare traduzione per via di un ricordo al quale era molto affezionato, il ricordo di uno degli spettacoli recitati da lui nella compagnia di Vincenzo Scarpetta: una féerie piena di esseri soprannaturali e artifici scenici, riadattata con l’inserzione della maschera di Felice Sciosciammocca.
D’altronde, nella Tempesta di De Filippo la caratterizzazione di alcuni personaggi, ad esempio lo spiritello Ariel, rammenta vagamente gli schemi della farsa napoletana; e il fatto che nella traduzione lo scrittore si sia servito di una lingua non solo dialettale, ma pure anticheggiante – cosa che accomuna il suo lavoro a quello di Camilleri e Dipasquale – rimanda a un dimensione di appartenenza rispetto alla storia di un preciso retroterra culturale. Da un punto di vista tematico, la sfera del ricordo è investita di una certa rilevanza già nel testo shakespeariano. Ma ne è investita anche la sfera della comunicazione: i personaggi di The Tempest (e de La tempesta) entrano in contatto gli uni con gli altri proprio attraverso il reciproco riconoscimento linguistico.
Persino all’interno della commedia, dunque, la lingua viene tematizzata come portatrice di identità – un’identità che può essere imposta, come Prospero ha cercato di imporre la sua parola civilizzatrice al colonizzato mostro Calibano, che al contrario ripudia gli insegnamenti del mago. Se si tiene conto di quanto fosse importante per Eduardo realizzare almeno nell’utopia del teatro quel sogno di comprensione reciproca fra gli uomini che il finale positivo de La tempesta realizza – con la rinnovata pace familiare e la conclusiva apostrofe al pubblico –, possiamo anche capire il rilievo dell’uso del dialetto nella sua traduzione, nonché in quella di Camilleri-Dipasquale, che hanno voluto immaginare la Messina di Crollalanza come un crocevia di culture, luogo di incontro e contaminazione, dove tutto è in continuo mutamento e tutto può diventare il contrario di tutto.
La lingua ufficiale de-finisce, traccia confini, i confini tra realtà e sogno, tra vero e falso, tra vita e morte. Ma per degli autori per i quali, come era per Shakespeare, il mondo è un palcoscenico sulle cui tavole le distinzioni tra queste categorie sono continuamente messe in discussione, il dialetto si offre, nella sua malleabilità, come lingua alternativa e “tollerante”, non esclusiva, ma comprensiva, in grado di non collassare di fronte alla bellezza del dubbio.
Elisa Ciofini
Foto di copertina: Miranda – The tempest di John William Waterhouse (1916), dominio pubblico (https://it.wikipedia.org/wiki/La_tempesta#/media/File:Miranda_-_The_Tempest_JWW.jpg)
Letto con piacere e forte interesse, al di là del mio essere siciliano. Grazie Elisa della analisi che hai esposto con serietà e competenza, rinnovando l’interesse verso lo spirito shakespeariano 🙏 e quello dei legami tra il passato della lingua originale e il passato di quella dialettale in una dilatazione di tempo e di fantasticherie che alla fin fine fanno dell’uomo e dell’umanità tutta personaggi da palcoscenico.
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