Occhi Selvaggi: un romanzo di formazione?

Occhi Selvaggi, Sandro Baldoni
(Edizioni e/o, 2022)

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In Occhi Selvaggi, Sandro Baldoni racconta la storia della famiglia Primavera, composta da “lu professor Primavera”, la moglie e i loro quattro figli, che per motivi di lavoro si trasferisce da una città del Nord Italia a Monteacuto, un piccolo paese di montagna del centro Italia. La narrazione è condotta in prima persona dalla prospettiva del terzogenito, che all’arrivo nel paese frequenta la prima elementare e che osserviamo crescere fin quasi al termine dell’adolescenza.

Le storie che coinvolgono la famiglia – anche tragiche, come la morte improvvisa della madre e i debiti contratti dal padre per riuscire a mantenere i figli, il trasferimento dei fratelli – sono osservate da uno sguardo che è parziale in quanto non riesce a cogliere del tutto le cause e le conseguenze di ciò che osserva, ma che spesso si pluralizza nell’osservazione accogliendo i commenti esterni dei fratelli, soprattutto dei due maggiori.

Il romanzo di Baldoni si muove su due traiettorie: la prima è quella del romanzo di formazione, che segue la crescita della voce narrante attraverso i capitoli e gli eventi che in essi si susseguono; la seconda è quella dell’emigrazione, l’insediamento di una famiglia di città in un contesto di montagna molto diverso da quello di provenienza. Nel cercare di rendere questa duplicità, però, l’autore incorre in alcune approssimazioni che rendono difficile il perseguimento dell’idea che sta alla base della narrazione.

Innanzitutto, la voce narrante, che dovrebbe essere “in divenire”, riuscendo a sintetizzare ed esemplificare le tappe di un cambiamento interiore, passando dai sei ai sedici anni, risulta in generale piatta: dall’inizio alla fine del romanzo si presenta identica a sé stessa, senza sfumature, non acquisisce maggiori capacità critiche o comportamentali, neanche attraversando tappe formative quali la scelta della scuola superiore (che la allontana dal nucleo famigliare), né la scoperta dell’amore e del sesso; l’io narrante risulta troppo adulto nel periodo dell’infanzia e troppo infantile nel periodo dell’adolescenza, dando l’impressione di vivere in un limbo atemporale.

Sempre a proposito della voce narrante, in alcuni punti del romanzo sono inserite lettere tra i fratelli, dopo che due di loro si sono trasferiti al Nord presso una zia per poter continuare gli studi: anche in questi casi non si avverte un vero scarto stilistico che vada a mimare identità diverse l’una dall’altra, ma sono contraddistinte tutte da un’uniformità dello stile. Le differenze risultano solo da piccoli dettagli, quali la firma in inglese del fratello minore, Giovanni, di cui dall’inizio del romanzo vengono elogiate le capacità nell’apprendimento della lingua.

Per quanto riguarda invece la parte relativa al trasferimento nella montagna, e quindi a un confronto tra la realtà cittadina e quella del paese, l’autore talvolta ricorre ad alcuni stereotipi, che fanno della città un luogo aperto, avanzato culturalmente, in cui è più opportuno formarsi; e di conseguenza il paese è un luogo chiuso, in cui la cultura non riveste alcun ruolo. Come riporta l’inizio del secondo capitolo:

«Quell’esperienza quasi battesimale mi aiutò a prendere le misure con un mondo completamente selvatico, dove tra uomini e animali c’era un rapporto in cui, per sopravvivere, ognuno aveva bisogno dell’altro, e il rispetto reciproco era basato su ciò che l’uno poteva dare o togliere all’altro, niente di più e niente di meno. Non c’era cattiveria o bontà, era solo un luogo in cui dominava l’equilibrio primitivo delle cose, dove prevaleva il più forte e determinato» (p. 12).

L’immagine che emerge del paese è quello di una comunità primitiva in cui vige il principio dell’homo homini lupus, in cui a valere è solo il contributo pratico o economico che ogni individuo può dare alla collettività. Più avanti nel romanzo, Marco – la voce narrante –, si definisce «l’individuo più retrogrado, anacronistico, preistorico, decrepito, stantio sulla faccia della Terra» (p. 142), caratteristiche dovute alla sua permanenza nel paese. Un’ulteriore scena che ricalca questo stereotipo è quella della festa di paese, in cui il fratello maggiore di Marco prova a regalare dei libri agli abitanti del paese, che sono delusi dall’offerta e molto più interessati alla musica e al vino:

«L’indomani scesi in piazza assieme a Giovanni per recuperare il tavolo e i cavalletti, lungo la strada trovammo libri abbandonati dappertutto: sui muretti del vicolo della canonica, dietro la fontanella della discesa per Santa Caterina, incastrati tra gli scuri della finestra dell’osteria, dimenticati aperti sugli scalini della scuola. “Ma perché hanno fatto così?” mi chiese Giovanni. “Boh, so’ stronzi”, risposi io» (p. 149).

Oltre queste problematiche costitutive, ci sono, all’interno del romanzo, altre traiettorie che vengono abbozzate e mai esplorate a fondo: i comportamenti libertini del padre, le sue imprese economiche quasi sempre fallimentari, il rapporto con la famiglia della moglie, la storia dei fratelli che ritornano al Nord, in città.

Alla base del romanzo è posta una domanda importante e attuale sulla possibilità di ripopolare e vivere l’Italia non urbana, dei paesi lontani e isolati, che sono stati esclusi dal processo di industrializzazione del Paese. Anche la scelta di una voce narrante che si trova a crescere in questo contesto è interessante, perché fornisce l’opportunità di confrontarsi con tematiche quali la limitatezza delle possibilità educative e delle proposte culturali all’interno del paese, la difficoltà a emanciparsi, le prospettive future di un adolescente che vive in provincia, lontano dai cambiamenti storici e dai dibattiti politici. Purtroppo il narratore sembra affrettato nello scrivere e nel far accadere eventi, con il risultato di creare all’interno del romanzo un mondo manicheo in cui alla città corrisponde il progresso (e dunque il luogo in cui dover emigrare) e al paese l’arretratezza (e quindi il luogo da cui scappare per non rimanere un retrogrado).

Enrico Bormida

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