Senzanome, Mirfet Piccolo
(Giulio Perrone Editore, 2022)
Date due persone con presupposti identici alla partenza – il patrimonio con il quale si nasce, esattamente lo stesso padre e la stessa madre e la stessa povertà nella stessa casa – chi tra le due ha più probabilità di partecipare al meglio al gioco della vita, e perché? Perché non entrambe? [p. 62]
Senzanome (Giulio Perrone Editore) è il romanzo d’esordio di Mirfet Piccolo, già autrice di racconti pubblicati in diverse antologie e riviste, tra cui Solo Zoe, comparso su Sottobosco, l’ultimo numero della nostra rivista. Chi aveva apprezzato in Solo Zoe la capacità dell’autrice di evocare tramite sapienti dettagli il mondo di una bambina durante la pandemia, ritroverà qui la stessa precisione e una prosa ancor più disciplinata e tagliente.
Si comincia con una mamma e una bambina piena di domande nel tragitto tra casa e scuola. La bimba vuole sapere le storie dell’infanzia di sua madre, incalza la narrazione e sollecita dettagli. La madre risponde, ma la reazione della figlia ai racconti tradisce un dubbio, la scoperta di un’incongruenza. Seguiamo allora febbrilmente la donna fino al ritorno a casa, dove tirerà letteralmente fuori il suo vero passato da un cassetto della scrivania.
I ricordi che compongono l’infanzia e la giovinezza della donna, la sua vita prima dell’arrivo della figlia, sono infatti custoditi in un blocco di post-it fittamente scritti a matita. Ricomponendo i post-it in ordine cronologico su una bacheca, la protagonista – che, come tutti i personaggi del libro, resterà senza nome fino alla fine – crea una narrazione della sua vita fatta di frammenti e ricordi.
La vita che racconta, la cui verità va tenuta nascosta alla bambina, comincia con un’infanzia di violenza e povertà in una cascina occupata nella provincia milanese, prima, e in uno squallido appartamento in periferia, dopo. La donna è stata la figlia indesiderata di una madre sola e incapace di occuparsi di lei e fin dai primissimi ricordi la famiglia è il luogo delle frustate con l’asta dello stendibiancheria, dell’assenza di cibo e compassione, della continua accusa di mostrarsi ingrata per il privilegio di esser stata messa al mondo.
Anche quando la famiglia d’origine viene parzialmente sostituita da una comunità per minori, nelle intenzioni luogo di opportunità e protezione, la violenza rimane ben presente nella vita della bambina e prende le forme dell’abuso sessuale, perpetrato in un ambiente in cui è normalità e pilastro del vivere quotidiano. Gli anni dell’adolescenza e della giovinezza saranno poi il tempo in cui è impossibile perdonarsi e trovare pace, dove la ricerca di un faticoso equilibrio viene progressivamente sostituita da un desiderio di giustizia destinato a rimanere inappagato.
La lettura di Senzanome è dolorosa, ma nonostante la crudezza dei temi trattati la narrazione mantiene una sobrietà di fondo e non cade mai nel morboso. Questo obiettivo è raggiunto anche grazie alla natura frammentaria dell’opera: il racconto tramite post-it ha la duplice funzione di evocare la difficoltà nel mettere insieme una storia unitaria di ciò che si vorrebbe solo dimenticare e di spezzare il respiro dei frammenti più angosciosi, asciugando la prosa ed escludendo tutti i dettagli superflui.
La scrittura esatta di Piccolo, d’altra parte, è in grado di dipingere con precisione personaggi e situazioni pur dicendo solo lo stretto necessario. È il caso del personaggio della madre, fanatica religiosa e fustigatrice delle sue figlie, eppure non disposta a lasciarle andare quando si presenta una famiglia affidataria disposta ad adottare la più piccola. E ancora, è iconica la figura dell’educatore dei trenini, l’orco cattivo della comunità, tuttavia descritto in termini umani e spiccioli, tutt’altro che mostruosi: siede con le gambe accavallate, fa un cenno con la testa alle bambine quando vuole un caffè o un bicchierino di grappa, legge Il Giornale e pensa che tutte le donne siano destinate al peccato, tranne sua madre.
L’assenza di retorica dell’autrice rende il contenuto della sua opera ancora più spaventoso: i cattivi sono banali e quelli che potrebbero essere buoni inciampano nell’indifferenza; non per cattiveria, ma per noncuranza, perché non è loro compito intervenire o perché nella vita vera non ci sono eroi.
Questa lucidità è stata ottenuta da Piccolo anche attraverso un profondo lavoro di studio e approfondimento sui testi di professionisti che si sono dedicati allo studio del PTSD da abuso sessuale in età infantile. L’autrice, che ha studiato Creative Writing alla Birkbeck University of London, rivendica infatti in un post sul suo blog l’importanza della formazione ricevuta nei corsi di scrittura per affrontare un argomento tanto delicato nel suo primo romanzo. «Indagare su tutto e farlo con serietà e disciplina, coltivare la lucidità e avere un obiettivo ben chiaro in testa. Solo così mi è stato possibile pensare a un libro come Senzanome, e affrontare letture che altrimenti avrebbero potuto essere insostenibili per rabbia e disgusto», scrive.
Non ci sono formule magiche né soluzioni efficaci per affrontare il passato, nel mondo di Senzanome. La giustizia non è fatta per rammendare storie come questa. L’unica forma di riscatto si cela proprio nell’atto del raccontare: raccontare di sé è avere il coraggio di guardarsi allo specchio – un gesto che per buona parte della vita riuscirà difficile alla protagonista – e sostenere il proprio sguardo. Prendere possesso della propria storia e del modo in cui viene raccontata è il solo strumento disponibile per farsi giustizia da sé.
Ci sono anche io e sono qui, pensa, eccomi. [p. 186]
Loreta Minutilli