Qualcosa sulla terra, Davide Orecchio
(Industria & Letteratura, 2022)
Se da un lato rimanere chiusi in casa per quasi due anni ci ha portato a un’ipocondria esasperata e tremante, dall’altro ci ha resi più attenti. Non solo stiamo all’erta quando sfioriamo la maniglia della porta o urtiamo chi ci sta accanto in metropolitana, ma siamo anche più vigili nel cogliere i cambi di odore, di temperatura, di atmosfera. Quando attorno c’è poco da osservare, se tutto è fermo perché niente ha il permesso di muoversi, come degli animali randagi diventiamo più sensibili alle fonti di calore: se il calore, poi, è quello di un incendio, l’unico modo per uscire dall’inerzia è scoprire cosa sta bruciando.
Qualcosa sulla terra di Davide Orecchio esce per Industria & Letteratura nella collana “L’invisibile“, che riporta lo sguardo sulla forma ormai poco frequentata del racconto lungo. Nella descrizione programmatica della collana, si scrive che questa particolare lunghezza narrativa è un contenitore «gravido di possibilità come strumento di rappresentazione, approfondito e sensibile, anzi ultrasensibile, della realtà».
È vero: questa misura narrativa si assesta su una brevità definita ma in qualche modo sembra sempre tendere a una lunghezza ulteriore. È una prospettiva ridotta, che però viene costruita in modo da ricordare sempre al lettore che si tratta solo di una tra le tante possibili. Forse per questo risulta la più adatta ad uno scritto come quello di Davide Orecchio, che nel suo racconto torna al periodo della piena pandemia: l’immobilità e il silenzio del lockdown sono un filtro formidabile per esasperare l’importanza della più piccola molecola di esistenza, degli abitanti soli in una città di solitudini.
Si parte dal fuoco: qualcosa brucia nell’aria della metropoli (che ora, svuotata e muta, forse metropoli non è più). Di solito il crepitio delle fiamme si porta dietro i fumi tossici della spazzatura incendiata, gli abitanti che salutano quel calore appiccicoso e venefico con una rassegnazione annoiata, e un perverso sollievo, perché se l’immondizia brucia significa che va in cenere, e se va in cenere significa che non c’è più.
Stavolta però non è la spazzatura che sparisce fiammeggiando: stavolta «nessuno aveva bruciato immondizia per odio ma era bruciata una casa ed era bruciata una donna». E proprio come fanno i gatti selvatici e i cani randagi quando sentono che qualcosa si muove, l’unico modo per scoprire quanto è vicina la morte (o la vita) è andare di soppiatto a vedere.
Inizia allora un racconto per via indiretta, che scaturisce in uguale misura dalla qualità di osservazione narrativa di Orecchio e dalla voce (in che parte da considerarsi reale? In che parte inventata?) di uno dei vicini di Bianca. È una storia piccolissima, che si sposa bene con un’epoca surreale come quella pandemica; una storia in cui le misure di importanza sono sconvolte e sbilanciate, esattamente come sconvolgente e sbilanciante è la malattia invisibile che svuota le città.
Così, la corsa di un gatto che attraversa i viali deserti alla ricerca del suo padrone diventa un’epopea mitica, importantissima, da cui trarre morali rigenerative e salvifiche – e allo stesso tempo, una vita intera la si può restringere e comprimere nel corso di poche pagine, senza per questo sacrificarne la vivacità o l’intensità.
Davide Orecchio perfeziona la tecnica del soppesare diverse dimensioni della vita pratica e metafisica in poche righe: mentre la voce e gli occhi si muovono tra le città lagunari del Nord-Est e quelle inquiete e calde di fuoco del centro Italia, le candele da cui scaturisce il fuoco dell’appartamento di Bianca mostrano il loro legame lampante e inaspettato con una voragine sociale che è quella della solitudine cittadina, anche a prescindere dalla pandemia.
Bianca non lasciava il ricordo di capelli biondi. Bianca non lasciava il ricordo di bellezza e sorrisi. Ma questo significa che non meritava un po’ di dolore dal mondo? No, mi sono detto, non lo significa. Bianca aveva diritto a un po’ di dolore dal mondo, proprio perché non aveva regalato romanzi o poesie. Bianca era esistita ma il mondo non la esisteva. […] Bianca era morta per la sua candela, per la sua povertà e perché era sola. Bianca non lasciava poesie. Le poesie di Bianca erano le sue bollette morose. Le bollette che non pagava erano i suoi spazi bianchi e i suoi a capo.
La vita di Bianca è piccola e incompleta, e anche il racconto che ne fa Orecchio è piccolo e mantiene un’aria di incompletezza. Va bene così: è arbitrario e riduttivo pensare che tutte le narrazioni debbano essere universali e omnicomprensive, che ogni sguardo debba essere quello perfetto.
Ben vengano allora gli sguardi obliqui, i racconti molecolari del pulviscolo di solitudini contemporanee: la strada per la comprensione dei disegni ampi passa anzitutto per l’analisi dei loro tratti più insignificanti.
Emma Cori
Foto di copertina di Alexey Komarov da Wikimedia Commons: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:A_feral_cat_sleeping_on_a_roof_in_Arambol.jpg