Creature dalla voce abrasiva: le donne di Eva Baltasar

Mammut, Eva Baltasar
(Nottetempo, 2023 trad. Amaranta Sbardella)

L’ultimo romanzo di Eva Baltasar, poetessa e scrittrice catalana, rappresenta la terza anta del trittico composto da Permafrost e Boulder. A fare da denominatore comune alle opere, la centralità di protagoniste donne incastrate in momenti cruciali delle loro vite; in tutti e tre i casi, l’autrice presta loro parole impietose per setacciare la propria vita interiore.

In Mammut, in particolare, la voce che racconta la sua storia appartiene a una ventiquattrenne che il lettore percepisce da subito insoddisfatta e irrequieta. Affamata di cambiamento, il suo modo di vivere le sembra materiale ormai inutilizzabile, da riciclare in blocco.

Nel momento in cui la storia ha inizio la protagonista vive a Barcellona, ha vinto un bando di dottorato all’Università, si occupa di sociologia e raccolta di dati e statistiche, un affastellato mucchio di cose che non le interessano più. La missione che si è data, nell’anno di cui racconta, è quella di rimanere incinta; il suo desiderio non si proietta mai verso l’esperienza maternità, ovvero quello che accadrebbe dopo la gravidanza. A interessarle è solamente il “prima”: il processo della fecondazione, il seme che s’impianta nel corpo e le conseguenze che sul corpo agiscono aggressive. Il grembo che lievita nelle dimensioni, smargina ed erompe dal cosciente controllo facendosi cioè vettore di un’altra vita:

Non era stato il desiderio di un figlio a rapirmi, ma piuttosto il desiderio di portarlo in grembo, di far passare la vita attraverso il corpo, di creare. Per farlo dovevo liberarmi della gabbia. Quasi l’unico modo di andare avanti fosse la fuga. Quasi non ci fosse salvezza, ma solo la lana fossile del passato. (p. 27)

Nella prima parte del romanzo, tutte le situazioni che la protagonista vive le si chiudono attorno come recinti; da una prospettiva tanto ingabbiata, riesce a stento a immaginare un “fuori”.
Quando racimola finalmente il coraggio per virare, persino far deragliare la sua vita, quel fuori si concretizza in una località di campagna, isolata e indifferente al fracasso della civiltà. Decide di mollare tutto per trasferirvisi, sperando così di immunizzarsi rispetto all’insensatezza del presente. La sua critica alla contemporaneità è invelenita, corrosiva, spesso le rimbalza addosso coinvolgendola direttamente – anche lei si auto-critica, e contro se stessa è altrettanto spietata e intransigente – ma comunque il suo tono non si chiazza mai di moralismo.

In questo non-luogo di campagna ai confini nel mondo civilizzato intesse un solo, fioco rapporto umano con un pastore. A casa di lui s’improvvisa governante; in cambio, lui la istruisce col suo fare laconico e pragmatico sulle leggi del posto, dettate dalla natura che lì tutto decide, salvaguardando la propria selvatichezza.
Vivendo corpo a corpo con un paesaggio tanto brado, la protagonista si trasforma. Lei stessa inizia a percepirsi attraversata da cambiamenti che l’avvicinano a uno stato più ferino, ché quando saltano in aria le costrizioni sociali corpo e mente si sbrigliano, e provano a dimenticare che effetto fa, portare una museruola, attenersi al buon costume, lasciarsi addomesticare.

La scrittura procede per giustapposizione di immagini, molte delle quali prese in prestito dal mondo animale, a rimarcare l’effetto di quell’inselvatichimento che innerva la trama: l’avvicinamento a una natura bestiale agisce perciò sia nel contenuto che nella forma. Ci si imbatte in un voluminoso bagaglio di espressioni, metafore e similitudini che fanno intravedere negli umani comportamenti lupeschi, fauci feroci, reazioni istintuali. Ad esempio, la protagonista dice del pastore che:

[…] è tutta la vita che si fida solo delle pecore, solo di sé. Non lo vuole ammettere, eppure credo che in paese si senta indifeso. Per lui le persone sono soltanto sciami, la somma intelligente di bestie nocive che, prese una per una, non sarebbero niente. (p. 75)

Lo stile è paratattico, sceglie la via della recisione e del conflitto piuttosto che quella dell’armonizzazione. Tra loro le frasi non si tengono per mano ma, anzi, frantumano il quadro complessivo di pensieri del personaggio in un rosario sgranato di frasi frante.
Nel modellare così la lingua, Baltasar svela tutta la sua confidenza col linguaggio poetico: incide la realtà con minuzia chirurgica, i dettagli brillano di luce propria grazie alla stringatezza con cui vengono isolati.

Si è detto della triade di romanzi di cui Mammut rappresenta il terzo componente. Come da ammissione dell’autrice, pur facendo sistema, i tre non si stringono in un progetto chiuso, al contrario: nel dichiarare la traspirante affiliazione che esiste tra le opere, la Baltasar confessa pure che un «punto finale» non c’è.
Lo precisa in una chiosa che si accoda all’epilogo e rimane sospesa nel vuoto, senza un punto a delimitare la frase; l’intenzione sembra proprio quella di ribadire idealmente che Mammut vorrebbe stabilire sì un’ultima tappa, ma che non necessariamente è l’ultima. Così l’interpretazione dei vari tasselli – il modo in cui le tre opere convergono e confliggono insieme, a un tempo – sta a chi le legge, anche in ordine sparso.

D’altronde la scrittura della Baltasar non vuole affatto rimettere insieme i pezzi; essa al contrario scuce e scartavetra.
Le sue protagoniste non hanno nome, eppure è difficile dimenticarsi di loro e non cedere alla tentazione di convocarle ogni tanto alla memoria, rievocandone soprattutto l’irriducibilità e il coraggio.

Viviana Veneruso

Immagine di copertina: https://unsplash.com/it/foto/1FglKcUaMjw

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