Tradurre dal tamil in Italia: Dorotea Operato su “Punacci”

Punacci, storia di una capra nera (P. Murugan, Utopia Editore 2022) è un romanzo pungente fin dalla prefazione, le cui primissime righe esprimono forse il nodo del mestiere dello scrittore, della difficoltà, della reverenza che tale missione porta con sé:

“Per quanto tempo le storie non raccontate resteranno sepolte nel profondo della terra come semi dormienti? Ho paura di scrivere degli uomini e scrivere degli dei mi terrorizza”. (p.7)

Con queste parole incisive, Perumal Murugan prepara punaccil’introduzione degli “asura” e giustifica dinanzi al lettore la sua scelta di raccontare la storia di una capra. Una narrazione vivida, che ha la vivacità di un romanzo contemporaneo e la gravità di un’epica contadina, a metà strada tra mito e racconto popolare. Abbiamo l’occasione di parlare della letteratura tamil, di cui Murugan è oggi uno degli esponenti di spicco, con la traduttrice Dorotea Operato, studiosa di cultura tamil moderna e contemporanea e attualmente dottoranda presso l’Università di Napoli “L’Orientale”.

Benvenuta, Dorotea, e grazie per la disponibilità. Anzitutto devo ammettere che, prima di imbattermi in questo libro, non avevo – mea culpa – idea di chi fossero i tamil. Prima di entrare nel merito della letteratura, potresti darci qualche punto essenziale sulla storia di questa civiltà? Dove vivono, chi sono?

Grazie a voi per l’invito! I tamil sono un popolo che vive prevalentemente nello stato del Tamil Nadu, in India meridionale, le cui origini storiche e geografiche sono ancora oggi al centro di accesi dibattiti. La mancanza di fonti archeologiche determinanti relative alla prima fase della loro storia rende questa questione particolarmente spinosa. In generale si ritiene che questo popolo esistesse già intorno al terzo millennio a.C., mentre le prime fonti epigrafiche disponibili ci dicono che intorno al terzo secolo a.C. abitasse l’India meridionale, dove era diviso in diversi regni, unificati poi in un unico impero dalla dinastia dei Chola, che regnò tra il IX e il XIII secolo d.C. La loro lingua, il tamil, appartiene alla famiglia delle lingue dravidiche ed è attestata a partire almeno dal primo secolo a.C. Questo la rende una delle lingue più antiche al mondo e, a differenza di altre, tuttora parlata da più di ottanta milioni di persone, in Tamil Nadu così come in Sri Lanka e nei paesi della diaspora tamil (le comunità più numerose sono in Malesia, Singapore, Sud Africa, Fiji e Canada).

Come ti sei appassionata alla cultura tamil? Qual è stata la scintilla che ha dato inizio a questo interesse?

Ho sempre avuto un forte interesse per l’India, ne ho subito il fascino sin da piccola. Scegliere di studiarne la storia, la cultura, e alcune delle sue lingue è stato un desiderio che ho nutrito a lungo e concretizzato con i miei studi universitari e, in particolare, con lo studio del sanscrito e della hindi. Inizialmente, dunque, non ho avuto particolari contatti con la cultura e lingua tamil, che non è inserita nei curricula italiani, se non attraverso brevi seminari organizzati in Università. La scintilla vera e propria è scattata durante l’ultimo anno di corso di laurea magistrale, quando ho trascorso un periodo di ricerca di tre mesi a Chennai, in Tamil Nadu. Quell’esperienza mi ha dato la possibilità di immergermi completamente nel mondo tamil, la cui lingua, con i suoi suoni melodiosi e una cadenza che trovavo ipnotica, mi ha particolarmente affascinata. La scelta di approfondire la conoscenza di quel mondo è stata a quel punto inevitabile.

Nel tuo profilo si legge che uno dei focus della tua attività di ricerca è la costruzione dell’identità tamil. Trovo i processi di sviluppo identitario un tema estremamente interessante, al quale mi sono dedicata anch’io seppure in relazione ad altre culture. Nella consapevolezza che sia una questione che meriterebbe uno spazio più ampio di questa intervista, puoi dirci in breve come e quando nasce l’identità tamil?

Credo sia impossibile determinare con esattezza il momento in cui nasca – o venga costruita – l’identità di un popolo. Non solo il caso di quello tamil non fa eccezione, ma è anche aggravato da dibattiti ancora aperti, aspri, e fortemente influenzati dalla dimensione politica. Sicuramente una fase importante nella delineazione di una identità tamil si è avuta con la dinastia dei Chola – di cui sopra – che, attraverso la conquista di tutta l’India meridionale, aveva per la prima volta unificato politicamente i tamil in un unico popolo. Ancora oggi questa dinastia è percepita e presentata come emblema dell’identità tamil, grazie al generale clima di benessere che aveva portato, alla promozione delle arti, alla valorizzazione del tamil come lingua del potere e al sostegno alle tradizioni religiose autoctone. Tuttavia, ciò non esclude affatto un preesistente senso di comunità ed appartenenza, di identità, appunto, che anzi è sempre stato molto forte, trascendendo le barriere politiche, e basato principalmente sulla condivisione della stessa lingua. La mia ricerca attuale guarda agli sviluppi più recenti e si concentra sulle dinamiche che hanno caratterizzato il secolo scorso, quando l’India era sotto il dominio coloniale. Nel contesto del confronto con diverse culture e della necessità di indipendenza, il popolo tamil ha vissuto un’importante fase di rivalorizzazione della propria storia e tradizioni. In particolare, la lingua tamil e lo Śaivasiddhānta, una tradizione teologica basata sul culto del dio Śiva, sono emersi come due importanti fattori costitutivi dell’identità tamil, usati come leve per rivendicare una civiltà complessa, antica e sofisticata, che potesse riscattare i tamil dalla generale e prevalente denigrazione di carattere etnico, linguistico e religioso. La mia ricerca guarda dunque a questi sviluppi, alle cause che li hanno generati e ai risultati che hanno portato.

Come si pongono i tamil in relazione al sistema delle caste in India?

Ci sono diverse interpretazioni del sistema delle caste, che sicuramente rappresenta da tempo immemorabile una peculiarità dell’India. Alcuni vedono la casta come un simbolo di comunità, altri come il principale ostacolo alla stessa, dunque come fattore discriminante nell’organizzazione della società. E ancora, alcuni vedono il sistema delle caste come prettamente religioso, altri come meramente sociale o economico. L’idea dominante in Tamil Nadu è che essa perpetri la dominazione dei Brahmini, considerati in origine non-tamil, su tutte le altre caste, propriamente tamil. La questione, tuttavia, è molto più complessa di così. Il secolo scorso ha visto insorgere diverse agitazioni sulla scia di questa particolare visione, che demonizzavano il sistema delle caste e ne chiedevano l’abolizione; ciononostante, in quel contesto la casta stessa è stata il veicolo della mobilitazione sociale e politica, diventando dunque un sinonimo di comunità, almeno per quella parte di popolazione con background e status comuni. In entrambi i casi, essa implica l’esclusione di almeno un segmento della società. Se guardiamo agli sviluppi più recenti in merito al sistema delle caste in Tamil Nadu, c’è sicuramente da dire che una misura per attutire le discriminazioni sociali è stata l’abolizione dei nomi che identificassero l’appartenenza di una persona ad una casta specifica, sebbene essa sia avvenuta tramite l’iniziativa indipendente della popolazione a partire dagli anni ’30 e non con l’applicazione di una legge. Negli ultimi due anni, invece, si sono intensificati i tentativi di far rimuovere i nomi identificativi delle caste dai cartelli stradali o dai nomi di studiosi e personaggi storici dai libri di testo e titoli delle istituzioni.

Venendo adesso alla letteratura in lingua tamil: quali sono i suoi temi dominanti e come sono cambiati dall’antichità ad oggi? Ci sono delle costanti rimaste immutate?

La letteratura tamil ha una storia antichissima, ci sono indizi su dei primi sviluppi già a partire dal III secolo a.C., ma per comodità e mancanza di dati certi si tende a farla coincidere con l’inizio dell’era cristiana. In quel tempo si registra l’attività dei bardi, che vagavano tra le corti reali cantando delle composizioni liriche di lunghezza variabile nei due generi della poesia erotica ed eroica. Non è chiaro il momento preciso in cui questo corpo di poesie orali si sia trasformato in antologie liriche scritte, ma esse sono generalmente datate tra il I e il III secolo d.C., seguendo gli stessi temi delle poesie barde. Parallelamente si sviluppò anche una tradizione grammaticale; la grammatica è stata uno dei domini teorici più fecondi nell’ambito tamil, comprendendo non solo aspetti più tecnici della lingua – come fonetica, morfologia, sintassi e semantica –, ma anche la poetica e la metrica. Queste due tradizioni, e in particolare quella delle antologie di poesia erotica ed eroica, sono state poi gradualmente soppiantate da un nuovo canone letterario di orientamento religioso-devozionale, emerso a partire VII secolo e fiorito fino al diciannovesimo secolo. Infine, nel diciannovesimo secolo c’è stata una grande rivoluzione in ambito letterario, sotto l’impatto del colonialismo e della modernità occidentale, che ha portato all’emergere di un nuovo genere, quello del romanzo in prosa; questo si avvalse di nuove tematiche, diventando uno dei mezzi principali per esprimere le preoccupazioni legate alla sfera socio-politica, così come per diffondere idee figlie della modernità, come le riflessioni sul ruolo della donna nella società.

Una preziosa nota a piè di pagina ci dice che nella cultura indiana gli “asura”, che come anticipato sopra vengono menzionati dall’autore nella prefazione al romanzo, sono «semidei con caratteristiche sia positive che negative, partecipi delle passioni umane», «spesso descritti come demoni spaventosi dalle fattezze animali», ma che nell’opera Murugan impiega lo stesso termine per indicare il popolo dei tamil. Questa associazione è una idiosincrasia di Murugan o ha dei precedenti? A cosa è dovuta?

Si tratta di un’associazione non comune nei romanzi, ma non rappresenta una idiosincrasia dello scrittore. Essa richiama, piuttosto, un dibattito emerso nella metà del ventesimo secolo sulla base dell’antica letteratura religiosa, circa la miticizzazione delle prime comunità tamil come demoni, asura appunto. In particolare, nel secolo scorso questo dibattito si inseriva nel contesto di una delle teorie sulle origini di questo popolo e sulla minore complessità e sofisticazione della loro civiltà rispetto a quella del popolo indo-ario, che li avrebbero invasi ed assoggettati. Ovviamente questa interpretazione ha poi generato una serie di contro-narrative, nelle quali veniva fornita una storicità agli asura-tamil, presentandoli come esempio di re-eroi virtuosi che combattevano e proteggevano il proprio popolo. Quello di Perumal Murugan è, dunque, l’ennesimo richiamo a delle problematiche relative al proprio popolo, cui l’autore è solito dare voce.

Punacci, storia di una capra nera raffigura dall’interno una vita rurale modesta, povera, fatta di stenti e brevi felicità presto dissipate dalle trame ruvide di un quotidiano cupo, un mondo che conosce lo scorrere del tempo, le regole naturali e il corpo animale in modo diverso. Un mondo che l’autore, figlio di contadini originario dell’India meridionale, deve conoscere bene. Nel corso della lettura, però, si intuiscono le basi di una conoscenza che viene ‘dall’alto’, ad esempio nei riferimenti a particolari tradizioni o credenze. È questo romanzo anche un’opera colta, in cui l’autore unisce alla sua esperienza biografica i frutti del suo lavoro accademico di ricerca e ricostruzione?

Le tradizioni e credenze che trovano spazio in Punacci e in altre opere di Perumal Murugan sono figlie della terra a cui l’autore appartiene e che la contraddistinguono, particolarmente circoscritte alla regione del Kongunadu, compresa tra gli odierni Tamil Nadu occidentale, Karnataka sudorientale e Kerala orientale Sicuramente la sua formazione accademica si riversa nella scrittura, fornendogli, da un lato, maggiori strumenti per poter esprimere al meglio sensazioni e pensieri a loro legate e per enfatizzare particolari sfumature di significato per ogni fatto raccontato e, dall’altro, una critica pungente e spesso velata e complessa, spesso anche difficile da afferrare ad una prima lettura, soprattutto se non si ha familiarità con questo tipo di culture e la loro società. Tuttavia, il mondo da lui raccontato è soprattutto il frutto di un’esperienza ‘dal basso’, nata dunque dall’immersione in quelle tradizioni.

Punacci è anche un romanzo molto politico, una critica al potere ingiusto su tutti i livelli, un quadro di sopraffazione sistemica del più debole. È possibile leggervi anche un intento ecologista e antispecista? Penso ai riferimenti en passant agli effetti del cambiamento climatico – di cui si parla esattamente come ne parlerebbe un vecchio dopo una vita di lavoro nei campi – sul sostentamento e sulla sopravvivenza delle piccole comunità contadine, ma anche alle riflessioni di Punacci sul suo destino animale.

Il racconto della forte siccità e carestia che si legge in Punacci richiama un problema tanto attuale quanto storico in Tamil Nadu. Il clima di questo stato oscilla tra il secco, il semiumido e il semiarido, e le difficoltà dei raccolti, legate al terreno prevalentemente salino ed alcalino, sono da sempre molto comuni. Non posso escludere completamente che i racconti vividi che troviamo in questo romanzo si facciano carico in qualche misura di un messaggio ecologista, ma ritengo che sia più probabile che l’intento dell’autore fosse quello, ancora una volta, di portare alla luce un’altra questione spinosa ed irrisolta della contemporaneità. Mi riferisco alla gestione delle acque del fiume Kaveri, uno dei più grandi fiumi dell’India, che con i suoi affluenti rappresenta un’importante fonte di irrigazione in ben tre stati dell’India, ovvero il Tamil Nadu, il Karnataka e il Kerala, e di un territorio dell’Unione, Puducherry. La regione del Kongunadu non fa eccezione, essendone attraversata in direzione sudorientale. L’uso e la divisione delle sue acque tra questi territori sono regolati da degli accordi ed attualmente gestiti dallo stato del Karnataka, che deve garantire agli altri stati determinati flussi settimanali e mensili, compito che espleta attraverso un sistema di dighe. Questa situazione ha creato forti scontri e malcontento soprattutto negli ultimi decenni, nei periodi in cui si è registrato un più spiccato calo delle precipitazioni. Proprio tra il 2016 e il 2017, gli anni durante i quali Murugan ha lavorato a questo romanzo, in Tamil Nadu si registrò una siccità senza precedenti e, in quell’occasione, lo stato registrò delle forti agitazioni per una diversa gestione delle acque del bacino di questo fiume. Considerando la caratteristica di questo autore di toccare attraverso le sue opere criticità peculiari della sua società e comunità, il suo intento era forse quello di suscitare una riflessione in merito a questa disputa, mettendo particolarmente in luce la disperazione e durezza delle condizioni dei contadini, così come quella del bestiame.

C’è una continuità tematica nella produzione letteraria di Murugan? Sai dirci quali potrebbero essere i suoi prossimi titoli ad essere disponibili in traduzione italiana?

Le opere di Murugan sono molto influenzate e spesso ispirate dalle sue origini, dai luoghi della sua infanzia, che appartengono ad una dimensione prettamente rurale, rustica, e che sicuramente ne fornisce uno sfondo quasi costante. La familiarità con questo mondo emerge in modo particolare in Punacci, ricco di termini e descrizioni di pratiche molto specifiche, che difficilmente una persona con un background diverso sarebbe in grado di esprimere. Nello stesso tempo Murugan è anche uno scrittore che vuole provocare, con lo scopo di far insorgere nel lettore attento delle riflessioni più profonde in merito a questioni tanto politiche e sociali quanto religiose. Il tema delle caste, a cavallo tra queste tre dimensioni, del loro equilibrio o confronto, rappresenta sicuramente uno dei temi che emerge in modo più assiduo nelle sue opere. In ogni caso, Murugan riesce a presentare questi temi ogni volta con prospettive, sfumature e toni diversi, non risultando mai banale. È per questo motivo che insieme a Gerardo Masuccio, fondatore di Utopia, vi è il desiderio di pubblicare diverse opere di questo autore, svelando un po’ del suo mondo al pubblico italiano. Siamo già al lavoro sul prossimo titolo, che però resterà una sorpresa!

Per chi non ha ancora letto il romanzo e vuole evitare spoiler, questa intervista finisce qui.
Per tutti gli altri: l’opera termina in modo piuttosto inaspettato e un po’ enigmatico. Qual è la tua interpretazione di questo finale?

Devo ammettere che quando ho letto il finale, all’inizio sono rimasta un po’ interdetta. Sebbene il lettore sia gradualmente portato a prevedere la morte di Punacci, non era affatto così che l’avevo immaginata. Trovavo che fosse troppo silenziosa per un personaggio che si era fatto sentire così tanto, che aveva fatto scalpore e che aveva portato anche scompiglio nel piccolo e monotono contesto familiare che viene presentato già dalle prime pagine del romanzo. In un secondo momento, però, ho pensato che l’epilogo, in un romanzo che cerca di restituire un’immagine quanto più fedele possibile alla realtà sebbene da una prospettiva insolita – quella degli animali, appunto – non potesse essere che questo. D’altronde, la morte di una capra in natura non avviene in altro modo che così: in silenzio. Ritengo, quindi, che questa non sia stata che una delle volte in cui Murugan racconta gli eventi così come avverrebbero nella vita quotidiana, nella loro cruda verità.

A cura di Alessia Angelini

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