E luce fu – Under Milk Wood di Dylan Thomas

Uno di quei paesi della costa inglese, con i tetti spioventi e le case di mattone, ancorati sul mare, là dove l’erba sbuffa fuori dalle dune, il vento anima ogni cosa, e tutto appare ancora più vivo proprio quando un velo di pioggia cala il lutto sulla sabbia; uno dei tanti villaggi del Galles, come Laugharne e New Quay, che il poeta Dylan Thomas aveva visto nella sua breve e tormentata vita (1914-1953): a qualcosa del genere pensava, quando, per la prima volta, su un foglio di carta, invertì l’ordine delle lettere dell’espressione imprecativa bugger all (“un bel niente”), e scrisse Llareggub? A qualcosa del genere pensava, quando iniziò a tracciare gli schizzi della cittadina – Llareggub, appunto – in cui avrebbe ambientato il radiodramma Under Milk Wood? Molto probabile. Quello che è certo è che Dylan Thomas, quando lo compose, frequentava già da molto tempo le emittenti della BBC, e aveva alle spalle diversi pezzi scritti per la radio.

La gestazione di Under Milk Wood, con prove informi, incursioni tematiche, riscritture, pubblicazioni parziali, attraversò la carriera del poeta e ne seguì gli spostamenti lungo la costa gallese fino ai suoi ultimi anni di vita, segnati dalla malattia. La fatica fu ripagata da un riconoscimento internazionale che Thomas non fece in tempo a ricevere di persona: il Prix Italia, premio per progetti e opere radiofoniche. Nonostante l’iniziale destinazione del testo, la popolarità ne ha fatto derivare, nei decenni a seguire, numerosi adattamenti per la scena.

Eppure, Under Milk Wood reca chiare tracce dell’originale medium per il quale era stato scritto. Chiunque lo ascolti, veda o legga, non può che averne una fruizione concentrata in massima parte sulla tessitura linguistica della drammaturgia. Under Milk Wood è, per prima cosa, lingua, pura lingua, in tutta la sua solitudine e forza. Il linguaggio denso, corposo, dalle cui nebbie emergono Llareggub e i suoi personaggi, gioca con i generi letterari – si passa dalla prosa poetica, alla poesia vera e propria, alla canzone, alla filastrocca, ai bisticci di parole e di suono, ecc. –, con l’intera gamma semantica di ogni termine, e soprattutto con la grammatica della lingua inglese, di cui sfrutta tutti i possibili meccanismi giustappostivi, e di cui mette alla prova le giunture, in veri e propri tour de force di creatività linguistica.

Inutile dire come tutto questo renda l’esercizio di traduzione una sfida durissima. Il dramma è stato ripubblicato, un paio di anni fa, da Einaudi, nella versione adattata per l’italiano da Enrico Testa; ma vale veramente la pena prendersi un po’ di tempo per leggere con calma il testo in lingua originale, se è vero che, per un poeta, come Thomas era, elementi essenziali della comunicazione artistica sono la stessa facies esterna delle parole, il loro aspetto e la loro forma, in quanto essi stessi evocatori di suono e di immagine. Possiamo, forse nel modo più ovvio, avvicinarci al testo di Under Milk Wood partendo proprio dal monologo d’apertura – come l’autore stesso sembra quasi invitarci a fare nelle cinque parole incipitarie: «To begin at the beginning:

It is spring, moonless night in the small town, starless and bible-black, the cobblestreets silent and the hunched, courters’-and-rabbits’ wood limping invisible down to the sloeblack, slow, black, crowblack, fishingboat-bobbing sea [1].

Il monologo continua poi per circa due pagine, nelle quali, lentamente, si descrive il sonno del paese di Llareggub in questa notte di primavera, e, a piccoli bocconi, si rivela agli occhi della mente di chi ascolta una vista panoramica, verticale della cittadina immersa nell’oscurità. In questo fraseggiare cumulativo e metamorfico, la cui forza stessa deriva dall’aggiungersi, parola per parola, di sempre più sostanza alla catena verbale – che ne è modificata e, così portata per mano, attraversa tortuose sfumature e associazioni di significato –, non serve capire ogni termine per capire come l’autore abbia voluto sfruttare fino alla saturazione quella che Jakobson chiamerebbe “funzione poetica” del linguaggio, in tutta la sua carica autoreferenziale. Altrimenti detto, il testo non fa che parlare di sé. C’è Llareggub, ma, nel buio scenico che l’ascolto radiofonico implica, Llareggub è, essenzialmente, parola.

Ma torniamo, per capirci meglio, al «To begin at the beginning», “iniziamo dall’inizio”. Ab Iove principium, o, meglio ancora, in principio era il Verbo, come recita Giovanni: tutte le genesi iniziano dall’inizio. Ma l’inizio, qui, dove non esiste niente da cui partire se non il suono, è il testo stesso – il verbo: e non può essere un caso che appena una riga dopo la Bibbia torni citata in modo esplicito (bible-black, il nero più nero dell’istante appena precedente al momento generativo, il nulla prima del tutto).

Avviene, in questo primo monologo, durante il quale il testo entra in contatto con il suo pubblico e lo immerge dentro di sé, un vero e proprio atto di creazione poetica, al termine della quale lo spettatore può guardare il suo piccolo limitato mondo dall’alto e dirsi di aver fatto cosa buona e giusta, prima di rituffarsi giù e, con una sorta di carrellata o zoom, entrare non solo nelle case degli abitanti del villaggio addormentati, ma addirittura dietro i loro occhi chiusi, nei loro sogni, prima; e nei loro pensieri, poi, al risveglio.

Ma chi è che parla, in questo primo monologo? Dylan Thomas non dà un nome a quello che, in sostanza, si rivelerà essere un narratore onnisciente, che governa immaginari movimenti di camera tra un personaggio e l’altro, e i cui interventi appaiono sotto la dicitura di “first voice” – voce numero uno, ma anche la prima voce in assoluto dopo il silenzio dell’inesistenza: in effetti, il sottotitolo di Under Milk Wood, opera veramente corale – decine e decine di personaggi –, è proprio A play for voices, “dramma per voci”. La debolezza umana e insieme la forza poetica degli abitanti di Llareggub, che ci vengono presentati uno a uno, nel sonno, è metaforizzata nella loro stessa, effettiva, essenza: semplice suono. La materia rarefatta e potentissima su cui Under Milk Wood costruisce il piccolo cosmo di Llareggub permette, in questa prima parte del dramma, un operazione molto interessante: dopo aver acceso la fantasia degli ascoltatori/lettori/spettatori con la descrizione della notte, ricrea nelle loro menti quello che, di notte, nei sogni, avviene nelle menti dei personaggi.

Eccoli: Captain Cat, marinaio cieco – come il pubblico – visitato dai fantasmi dei suoi uomini affogati e da quello dell’amata Rosie Probert; Polly Garter, che si concede a tutti, e rimane sempre incinta; Mrs Ogmore-Pritchard, maniaca della pulizia, che in sogno continua a impartire ordini ai due mariti defunti; Mr Pugh, che progetta di avvelenare la moglie, salvo non venire mai a capo delle sue fantasie; Miss Prince e Mog Edwards, innamorati follemente, eppure capaci solo di scambiarsi lettere e vivere ognuno per conto proprio; il reverendo Jenkins, che, ogni mattina e ogni sera, benedice con una poesia la bellezza schietta del piccolo orizzonte di Llareggub, e i suoi abitanti semplici e innocenti anche nel male; l’ubriacone Cherry Owen, il grasso e buono a nulla Mr Waldo, l’organista Organ Morgan, il bigamo Day Bread, il postino Willy Nilly. Per essere esaustivi, l’elenco non potrebbe finire qui.

Questi personaggi ci appaiono in tutta la loro trasparenza emotiva. Di loro, Thomas ci fa conoscere, rappresentandolo in modo diretto, il dentro tanto quanto il fuori. Si traccia così una mappatura concentrica dell’universo di Under Milk Wood, che va dalla notte su nel cielo, alle strade e alle case che questa circonda, al ristretto globo contenuto nel cranio di ciascuno. Questi tre “stati” della realtà vengono attraversati in entrambe le direzioni con un movimento tripartito: come tre sono le metamorfosi nel famoso proverbio sulle età dell’uomo, così, anche tre sono gli atti – non dichiarati, ma individuabili – del dramma. Alla prima parte, dedicata al fetale sonno dei personaggi, fanno seguito una seconda, dopo il risveglio, che vede svolgersi una giornata di primavera in tutta la sua prorompente vitalità – rispecchiata dal rigoglio della natura e dei cuori di molti protagonisti –, e una terza, il crepuscolo e il ritorno al mondo buio dei sogni.

La dimensione temporale – chiusa nelle ventiquattro ore di una giornata – e il discorso sulla morte, i cui confini con la vita, nel buio dell’ascolto, vengono molte volte meno, occupano qui un certo spazio. Personaggio simbolico in questo senso è Lord Cut-Glass, un bizzarro signore, la cui casa è piena di orologi, regolati ciascuno su un’ora diversa in modo che l’apocalisse non lo colga di sprovvista. L’espediente, anziché risolvere il problema, evidenzia la presenza del momento della fine in ogni tic-toc che passa.

Certo, il primo “atto” coincide col terzo, e consegna così alla genesi iniziale, come dovuto a ogni genesi, un’apocalisse – ma la notte è pur sempre una semplice apocalisse quotidiana. La piccolezza umana, i suoi dolori, si estinguono nella vivacità del continuo crearsi del creato, nella spinta verso la vita di ciascuna creatura, nella bellezza della semplicità, nella poetica innocenza degli uomini, che sono limitati e inconsapevoli. Dylan Thomas cala il proprio pensiero nel quadro che, con le sue poesie-preghiere, il reverendo Jenkins dà della minuscola metaforica Llareggub:

«We are not wholly bad or good / Who live our lives under Milk Wood (il corsivo è mio: di qui il titolo), / And Thou, I know, wilt be the first / To see our best side, not our worst»[2].

Ma veniamo, quindi, al titolo. Milk Wood è prima di tutto il bosco di Llareggub dove si rifugiano gli amanti, e dove la Primavera – segnata nel testo con la maiuscola – soffia sempre il suo vento vitale. Ma il candore del latte – che pure è un elemento ricorrente nel testo – rimanda anche a una dimensione infantile. Nel piccolo mondo di Llareggub l’infanzia, al livello non solo concreto ma anche psicologico, ha la sua parte. La giornata è scandita dagli schiamazzi degli scolaretti, alcuni personaggi hanno a che fare con ricordi o visioni della loro infanzia, e d’altra parte si potrebbe definire infantile anziché grottesco il comportamento di quasi tutti gli abitanti di Llareggub, ingenui e per questo forse puri.

E lo stesso difettoso Eden-in-terra di Llareggub è l’opera di un uomo, un poeta; o degli uomini che sanno prestargli ascolto e fantasia. Tante delle composizioni poetiche di Dylan Thomas sembrano rammentare, per i loro temi, e per i termini in cui questi temi sono posti, Under Milk Wood. Ce n’è una in particolare – In the beginning, si chiama, per l’appunto – che, in alcune delle espressioni che vi compaiono, si riferisce ai primi istanti del mondo come a un’opera di scrittura. Vi si parla di firme, di stampe, di segni, di lettere, di traduzioni, di caratteri. E forse merita affidare proprio a Thomas il congedo, citando almeno alcuni di questi versi:

«[…] In the beginning was the world, the world / That from the solid bases of the light / abstracted all the letters of the void; / And from the cloudy bases of the breath / The world flowed up, translating to the heart / First characters of birth and death […]»[3].

Elisa Ciofini

[1]    D. Thomas, Dylan Thomas Omnibus – Under Milk Wood, poems, stories and broadcasts, Weidenfeld & Nicolson, 2014.

[2]    Alla lettera: «Non siamo del tutto cattivi o buoni / Noi che viviamo sotto al bosco di Milk Wood, / e Tu (Dio), lo so, sarai il primo / A vedere il nostro lato migliore, non il peggiore».

[3]    D. Thomas, Dylan Thomas Omnibus – Under Milk Wood, poems, stories and broadcasts, Weidenfeld & Nicolson, 2014.

Immagine di copertina: veduta del paese di Aberystwyth in Galles, CC BY 2.0 (Ted and Jen/Wikimedia Commonshttps://commons.wikimedia.org/wiki/File:Aberystwyth_from_Constitution_Hill_(8-13_ik40)_(12617647643).jpg#/media/File:Aberystwyth_from_Constitution_Hill_(8-13_ik40)_(12617647643).jpg)

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