In cerca d’aria e di salvezza: intervista a Daniele Mencarelli

Fame d’aria, Daniele Mencarelli
(Mondadori, 2023)

fdamencarelliFame d’aria è l’ultimo romanzo di Daniele Mencarelli, il primo scritto in terza persona e che non parte da un dato autobiografico. Fame d’aria racconta la storia di Pietro e il figlio, «autistico a basso funzionamento, bassissimo», e del viaggio che stanno compiendo verso il sud Italia, interrotto da un guasto alla macchina. Il romanzo mette al centro le difficoltà, emotive e pratiche, di un genitore che si rapporta a un figlio con un disturbo neurocognitivo che gli impedisce di condurre una vita autonoma. La narrazione è attraversata da una tensione sottesa, che attraversa tutte le pagine, si riverbera nei dialoghi, grazie a una scrittura essenziale e precisa, scevra di inutili abbellimenti e parole superflue.

Nell’intervista abbiamo parlato di Fame d’aria ma anche della trilogia autobiografica (costituita da La casa degli sguardi, Tutto chiede salvezza e Sempre tornare), dei temi ricorrenti e dell’importanza della precisione della scrittura.

Vorrei partire dal tuo ultimo romanzo, Fame d’aria, per poi passare a qualche domanda più trasversale sulla tua scrittura. Innanzitutto, Fame d’aria è il primo romanzo in terza persona: come hai vissuto il cambiamento di punto di vista sulla narrazione, dopo tre romanzi in prima persona (e autobiografici)?

Parto subito da questa parte finale della domanda. Avendo costruito tre romanzi in prima persona in cui il personaggio protagonista gioca tra vissuto e finzione ma che si chiama come me, nel momento in cui avevo esaurito la parte legata al dato biografico non potevo che passare in terza. Credo che ormai per me la prima persona sarà possibile solo se un giorno tornerò a giocare con il dato biografico e quindi con una parte di vissuto. La grande sfida del passaggio in terza persona è stata mantenere l’aderenza, mantenere una narrazione cruda al presente, che non sottraesse tensione al dettato, alla scrittura. Invece la soddisfazione più bella è notare come dai tanti che hanno preso atto di questo passaggio da autofiction a fiction – che tra parentesi sono generi a cui io credo molto poco – non sia stato avvertito in termini formali, di tensione del racconto, uno scarto in minore.

Il sentimento che mi sembra dominante in questo romanzo è la rabbia, un astio silenzioso che si riverbera in tutti i dialoghi. Fin dall’inizio si può percepire una tensione sottesa al viaggio che i protagonisti stanno compiendo, nonostante non sia esplicitato.

Questo senz’altro sì, diciamo che sia nella scrittura sia nel prendere la decisione di scrivere questa storia, tutta la gestazione è stata molto difficile perché ero consapevole di passare a un libro più duro. Più duro perché presenta uno scarto anagrafico dai primi tre. I primi tre libri raccontano di un ragazzo, raccontano le sue inquietudini, i suoi dolori, le sue sofferenze e anche le dipendenze, che sono cose anche molto dure, ma legate a quella parte della vita in cui tutto, nel ricordo degli adulti, è minore – anche se non è veramente così. Qui invece abbiamo il dolore e la rabbia di un adulto, un uomo, un padre; questa rabbia è un sentimento maiuscolo sotto ogni punto di vista perché è la rabbia di un uomo di cinquant’anni. Noi come immaginario collettivo vogliamo la rabbia legata all’età giovanile, e poi mano a mano con la progressiva maturità immaginiamo l’arrivo a un appoggio più rilassato, riflessivo e pacificato all’esistenza, e invece nel romanzo troviamo un uomo che ha tutti i sacrosanti diritti di essere molto arrabbiato.

Fame d’aria è il tuo romanzo che ho percepito come più crudo, quello che avverto è la mancanza di un’apertura verso il futuro: c’è un ricongiungimento finale, ma non quell’idea di salvezza che era invece presente nei tuoi romanzi precedenti.

Il finale è più aperto, a me piace pensarlo così: che quelle braccia della moglie che si alzano e abbracciano siano un gesto d’accoglienza. Quando si vivono certi destini con certe disabilità molto gravi in famiglia, i fattori che portano a una possibilità di salvezza sono molto concreti. Se non c’è un’istituzione o uno Stato che aiuta, che consente a queste famiglie di avere un adeguato supporto, la salvezza in termini affettivi magari esiste, c’è, viene condivisa. Però quando il problema è così grave, e queste famiglie si sentono abbandonate, evidentemente la salvezza diventa un fattore composto di tante forme di sostegno tutte ugualmente importanti: e non può essere considerato secondario l’aiuto economico. Pietro è un uomo disperato, non ha mai elaborato la malattia del figlio come spesso succede a tanti genitori, a tanti padri, ma è anche un uomo che vive strozzato dai debiti per pagare le terapie al figlio; la salvezza in questo caso è anche una salvezza di tipo sociale.

Infatti, nel romanzo, quando Gaia rivela di essere una psicologa e si offre di aiutare Pietro, il personaggio reagisce riversando contro di lei la sua rabbia.

Questo è un grande pericolo. Ho scritto recentemente un articolo per i cinquant’anni di Psichiatria Democratica, in cui sostengo che l’intervento psichiatrico rischia di diventare l’unica forma di welfare del paese. Faccio sempre questo esempio: Un paziente che è un uomo di cinquant’anni che perde il lavoro, con due figli che vanno all’università, che deve finire di pagare il mutuo, considerando che ormai a cinquant’anni sei fuori dal mercato del lavoro, non hai qualificazioni riguardanti il mondo digitale, non hai qualifiche adeguate: in un caso del genere qual è la causa e quale l’effetto? Il ricorso alla psichiatria e alla molecola significa evitare di affrontare le cause scatenanti di questo disturbo che sono assolutamente concrete. Quello che Pietro dice in maniera verbalmente violenta a Gaia, ovvero «Mi vuoi far stare più tranquillo? strappami un assegno da centomila euro», in fondo non è sicuramente la soluzione a tutti i mali, ma neanche possiamo leggere i problemi sociali partendo solo dal dato psichiatrico e non dai dati scatenanti che appartengono alle grandi disuguaglianze e alle grandi forme di abbandono sociale, condizione che in questo paese vivono centinaia di migliaia di famiglie.

Quello che rende così dura la lettura del romanzo è proprio una sensazione costante di abbandono.

Pietro arriva a dire che rateizza anche l’aria che respira. Arrivi a un punto in cui, come è successo in America nel 2006, quando si basa l’economia su formule di credito che permettono alle famiglie di rimanere sulla linea di galleggiamento, quando finiscono gli aiuti di questo credito al consumo che ti permette di sopravvivere, ecco che la famiglia dichiara fallimento.

Sempre a proposito delle famiglie, un tema ricorrente è quello del rapporto tra genitori e figli: non solo nel tuo io-narrante autobiografico, ma penso anche alla collega Adriana e il figlio in La casa degli sguardi, a Gianluca e la madre in Tutto chiede salvezza, a Emma e il padre in Sempre tornare, e ovviamente ai protagonisti di Fame d’aria.

Se uno pensa alla poesia del ‘900 italiano, la figura della madre è stata molto investigata, amata, cantata, per esempio da Pasolini e Caproni. Io per vent’anni ho scritto poesie e sono sempre stato attratto, in termini di curiosità umana e di passione, più che dall’amore erotico da quello consanguineo verticale. Mi ha affascinato di più, ho a cuore questo tema che comprende la famiglia ma che parte da una visione più ampia rispetto a ognuno di noi, il rapporto che ha la persona generata con la propria origine, e quindi con il proprio habitat sociale ed economico. Sono temi che mi interessano sempre di più perché questo è un paese che ha dimenticato che esistono classi sociali, e dunque anche i temi che riguardano le classi sociali non tornano spesso. Pietro vive la malattia del figlio da povero, se fosse stato un borghese ricchissimo quello che abbiamo detto prima non avrebbe senso, non avrebbe vissuto quel lento soffocamento dovuto alla difficoltà economica. Io sono morbosamente legato a questo tema. Nei primi romanzi il punto di vista è quello del ragazzo, che osserva i genitori e soprattutto questa madre che dal primo romanzo diventa quasi figura sacra – e mi viene in mente Pasolini che assegno alla madre il ruolo di Maria ne Il Vangelo secondo Matteo – ha questa capacità di resistere a ogni turbolenza del figlio. Nei tre romanzi anche il rapporto tra fratelli viene letto in quest’ottica che diventa quasi competitiva rispetto all’amore dei genitori. Nella ricerca dell’origine non posso non notare questa divisione interna alla famiglia, il rapporto tra generanti e generati e quello che c’è tra consanguinei generati. Questo luogo che è la famiglia è oggi anche un luogo di reati, la maggior parte dei reati in famiglia, quel luogo che ognuno di noi vorrebbe avere come rifugio diventa qualcos’altro.

Nei primi due romanzi descrivi due ambienti – l’ospedale Bambino Gesù e il reparto psichiatrico – che svolgono la funzione di una seconda casa, in cui l’io narrante si sente accettato e che segnano un punto di risalita; in Sempre tornare e Fame d’aria c’è un percorso di ritorno a casa. Cosa rappresenta per te la casa e perché è così importante all’interno della tua poetica?

Nei tre romanzi biografici la casa vive questa polarità che nella mia esperienza è stata terrificante, polarità che avvera questa dinamica. Si parte da una causa che può essere un disturbo psichiatrico, una dipendenza, o una malattia, e di conseguenza la casa vive, si trasforma, subisce questa metamorfosi: da focolare domestico in cui ripararsi, trovare i propri affetti e sentirsi al sicuro, al suo contrario, diventa una gabbia che non permette in alcun modo evasione. Nei libri c’è questa polarità. Nella ricostruzione finale che ho fatto di questa trilogia – che va cronologicamente a ritroso – la casa in cui il Daniele diciassettenne rientra (Sempre Tornare), con la madre che lo riporta nell’utero, fino al momento in cui ne La casa degli sguardi, invece che riportarlo in casa dopo l’ennesima giornata di disastri la madre lo porta su un ponte e lo sfida a buttarsi, in un certo modo lo ripartorisce. Ci sono qui le due polarità rispetto alla casa: la casa può essere luogo in cui rifugiarsi o luogo in cui rimanere intrappolati, autoesiliarsi.

Vorrei fare un parallelo con un tema che è tipico del modernismo, ovvero la presenza di figure di padri castranti. In Fame d’aria, a proposito di Pietro e Jacopo scrivi: «A guardarli, ora, il figlio sembra il padre. Il padre un bambino». Sembra quasi il figlio qui a fare da figura castrante rispetto a quelle che sono le ambizioni e le volontà dei genitori.

Nella trilogia smonto il refrain che vuole la famiglia e gli affetti come luogo che genera nel bene e nel male il destino del generato. Questa lettura che vuole sempre nelle dinamiche affettive famigliare il motivo per cui esplodono certe latenze psichiatriche o tossicodipendenze. Io racconto invece una famiglia assolutamente normale, viva in termini affettivi, una famiglia che fa dei propri figli l’unico grande patrimonio, smonto questo nesso causa effetto che è stato sempre automatico. In Fame d’aria c’è un figlio che in qualche modo è la grande zavorra che il padre sente incatenata al piede. C’è nei miei romanzi questo ribaltamento, queste figure paterne che non giocano un ruolo castrante, ma un ruolo sostanzialmente accogliente, non competitivo.  Con grande rispetto, nella trilogia smonto questa semplificazione che vuole la causa partire dai genitori e l’effetto patito dai figli, che oggi è diventato un automatismo. Smontarlo è stato bello perché nella mia esperienza da scrittore, da paziente negli anni della gioventù, questo nesso manca completamente. L’individuo vivaddio è un unicum in termini di genetica e di esperienze, che parte da un’origine e che spesso poi contraddice e nega, si trova a rifiutare quello che gli è stato offerto benevolmente e cerca solamente una lenta autodistruzione. Sono dinamiche che non si possono legare sempre e comunque ai propri genitori. Ho usato troppe parole per dire questo concetto.

In Tutto chiede salvezza, scrivi: «Quello che voglio per tanto tempo non è stato semplice da dire, tentavo di spiegarlo con concetti complicati, ho trascorso i primi vent’anni di vita a studiare le parole migliori per descriverlo. E di parole ne ho usate tante, troppe, poi ho capito che dovevo procedere in senso contrario, così, di giorno in giorno, ho iniziato a sfilarne una, la meno necessaria, superflua». Questa frase mi sembra rispecchiare anche un cambiamento che avviene di romanzo in romanzo, da La casa degli sguardi a Fame d’aria: la scrittura che diventa essenziale, le frasi sempre più asciutte, le descrizioni più brevi…

Questo è un processo che mi ha fatto perdere qualche anno di vita. I miei libri autobiografici hanno costruito questo narratore mio doppio, che era un io poeta, e che si lascia andare anche al piccolo ricamo, si intravede nella scrittura proprio la riflessione del poeta, è un io poetante che mano a mano cresce. Passando alla terza persona ho dovuto ragionare su come rendere quell’elemento di poesia, quella radice poetica avverata dentro una scrittura che vuole il protagonista non più essere un poeta. Quest’esperienza mi ha riportato all’esperienza di vita e di scrittura nello scrivere il libro che ho dedicato nel 2000 ai bambini dell’ospedale Bambin Gesù. Quelle poesie sono molto scarne, semplici, ridotte all’osso – come scrive Magrelli, «il fregio non deve nascondere lo sfregio». Quando devi trovare una misura che viene dettata dall’esterno, devi lavorare con grande rispetto e sempre e solo per sottrazione. Quella parola, salvezza, quel meccanismo è quello che ho adoperato per scrivere Fame d’Aria, emerge il rispetto come totale adesione alla rabbia del padre, totale adesione alla realtà. La poesia sta nel vissuto, non nella lingua. La lingua gioca per sottrazione, diventa poetica perché vive questa scommessa, ma è una lingua che si nega qualunque elemento di ricamo.

Un processo che ricorda quello svolto da Caproni nel suo passaggio dal sonetto monoblocco delle prime raccolte al Conte di Kevenuller e Res Amissa, e Caproni infatti è un poeta che ritorna all’interno dei romanzi.

È un esempio meraviglioso e calzante perché esistono due tipi di scrittori e uomini. C’è l’uomo che cede lentamente alla convenzione del vivere, giorno dopo giorno prende per buona quella distrazione comune, quell’allontanamento dai temi dell’esistenza che appunto fanno della vita e della nostra natura qualcosa di estremamente complesso e anche drammatico. Invece c’è un altro tipo di uomini che progressivamente accumula questa rabbia. Già dal Congedo del viaggiatore in Caproni si nota un poeta che rispetto a quello che canta alla madre si stava imbarbarendo rispetto al destino dell’uomo… e poi ci sono tutti i libri successivi che esplodono in questo senso, un’esplosione che consiste in un progressivo disseccamento della lingua. Quella lingua che cantava diventa più breve, rabbiosa, ansimante. La poesia è anche la lingua che indaga il rapporto tra uomo e sacro, è quell’uomo che fino all’ultimo cerca e non trova. Molti artisti percepiscono in termini drammatici la follia del nulla come racconto placido in cui vivere. Cercano perché vengono inseguiti, anche Caproni diventa cacciatore perché è inseguito. Sono legato molto al Caproni di Ultima preghiera, che canta Annina. Per una coincidenza anche mia madre si chiama Annamaria ma per tutti è sempre stata Annina, e quindi vedere che queste poesie d’amore si potessero dedicate a una madre ha fatto sì che Caproni, insieme con Sbarbaro e Dario Bellezza, diventasse una di quelle che io definisco letture cromosomiche, letture che mi hanno portato a essere poi scrittore.

A proposito della scrittura in versi, la descrivi come un processo che ti assorbe totalmente; è così anche quando scrivi un romanzo?

È un tema interessante perché oggi esistono secondo me una serie di parametri che aspirano ad essere garanzia di un libro riuscito, necessario, che per me sono secondari se non totalmente insignificanti. L’autore che parte dicendo «io per scrivere questo romanzo ho impiegato dodici anni»… e quindi il fatto che la permanenza, la militanza, dentro una scrittura specifica sia un dato che diventa sinonimo di qualità della scrittura stessa. Per me che ho sempre vissuto il terrore di rimanere bloccato all’interno della scrittura vale l’opposto, io ragiono in termini immersivi, per me la scrittura è veramente immersione dentro mondi, registri linguistici, psicologie. A me quando dicono di impiegare dodici anni per scrivere un libro mi chiedo come sia stato possibile mantenere coerenza all’interno di un racconto, di un personaggio. Però a prescindere da come la vede l’autore è importante come l’accoglie, come la vede il lettore.

Enrico Bormida

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