Fra Asti e le Ferrovie del Messico

Ferrovie del Messico, Gian Marco Griffi
(Laurana, 2022)

Un romanzo di più di ottocento pagine, di un autore praticamente sconosciuto, pubblicato da una piccola casa editrice. Emergere sembrerebbe un’impresa impossibile per un libro del genere. Eppure Ferrovie del Messico è già alla sesta ristampa, ha venduto migliaia di copie, ha vinto diversi premi ed è stato candidato allo Strega di quest’anno.

A parte la fama del curatore della collana che ha ospitato il libro, Giulio Mozzi, non ci sono molte spiegazioni per il successo dell’opera. Anzi, dalla lunghezza al tema trattato tutte le sue caratteristiche editoriali sembrano remargli conto.

Mi piace pensare, quindi, che la formula dietro al successo di Ferrovie del Messico sia composta da un unico elemento: è un libro magnifico. Gian Marco Griffi ha scritto un’opera letteraria vera e propria, complessa e allo stesso tempo scorrevole, qualcosa che intrattiene il lettore, ma resta a sedimentarsi nella sua memoria anche a libro concluso.

Asti, anni ‘40, sul finire della Seconda Guerra Mondiale. La linea narrativa principale segue le vicende di Francesco “Cesco” Magetti, un soldato della Guardia civile ferroviaria cui viene assegnato l’inspiegabile compito di redigere una mappa della rete ferroviaria del Messico. Da un pretesto così insignificante parte un viaggio di scoperta e ricerca dal sapore epico e cavalleresco che porterà il corpo di Cesco fra biblioteche, cimiteri, club notturni clandestini e dopolavoro ferroviari; la sua mente vagherà invece per tutta l’America Latina. Il lettore lo accompagnerà, allontanandosi di tanto in tanto per perdersi fra i labirintici corridoi dei palazzi amministrativi del Reich tedesco, o per passeggiare in un campo da golf, sotto i bombardamenti degli alleati, al fianco di cinici gerarchi nazisti.

Pur mantenendo un protagonista unico, Ferrovie del Messico è infatti un romanzo corale, che attraverso le sue molte voci viaggia in epoche e luoghi diversi. In ogni scena potrebbe aprirsi un sentiero verso un’altra storia, il che, come specifica Marco Drago nella postfazione, lo rende un romanzo infinito. Il libro di Griffi è un caso esemplare di Opera Aperta, per come la intendeva Eco, e da questo punto di vista si collega direttamente ai grandi romanzi-mondo degli anni ‘90.

Ferrovie del Messico, infatti, fa anche quello che ogni opera letteraria dovrebbe fare, e che molti libri si dimenticano di fare: dialoga con la letteratura. Lo fa esplicitamente negli infiniti richiami ai poeti, ai libri, alle edizioni, a Borges e alle sue opere; ma lo fa soprattutto implicitamente con le citazioni e gli ammiccamenti. Difficile non individuare nelle testimonianze sul conto di Cesco rese da vari personaggi secondari al comando della Gestapo il Bolaño dei Detective Selvaggi. Altrettanto difficile non vedere, in una storia ambientata in Piemonte alla fine della guerra, un po’ di Cesare Pavese qua e là.

Ma nonostante questo dialogo letterario, Ferrovie del Messico parla una lingua sua. Anche più di una, dal momento che Griffi arriva pure a inventarsi l’idioma della Zenga: una lingua parlata dai tagliaborse. Questo è solo uno dei tanti esempi su dove riesca ad arrivare lo sperimentalismo in questo romanzo, tanto quello linguistico quanto quello narrativo e strutturale. Su un impianto generale votato se non proprio al realismo, quanto meno al verosimile, l’autore innesta scene o sequenze allucinate e surreali. Fra tutte è particolarmente degna di essere citata quella sul niente: due personaggi si fermano a chiedere indicazioni a un anziano signore. Questi, gentilissimo, disegna loro addirittura una mappa, sconsigliando ai due di girare a destra, perché a destra non c’è niente. Ebbene, i due personaggi decideranno di ignorare i preziosi consigli, ritrovandosi nel “niente”, un assurdo spazio bianco e vuoto, in cui non esistono coordinate o progressione temporale e dal quale usciranno soltanto a fatica.

Non è certo l’unico innesto che, stonando con la linea narrativa principale, in realtà vi si armonizza alla perfezione. In queste digressioni Griffi si dedica soprattutto agli slanci ironici e comici, come quando descrive una fabbrica in cui si producono colori (non vernici o tinture, proprio colori), o come quando inscena un simpatico siparietto coniugale fra Adolf Hitler e Eva Braun. In questa specie di parodia del poema cavalleresco non manca neppure lo spazio per la storia d’amore. Anche in questo caso l’autore fugge dalla banalità, non inserendo nel rapporto fra Cesco e la bibliotecaria Tilde neppure un cliché.

Al di là dell’ironia, del gioco o dell’esercizio di stile, Ferrovie del Messico è anche un romanzo di spessore, con una sua caratura intellettuale oltre che artistica. In mezzo a una miriade di temi diversi, trattati tutti con un misto bilanciato di tatto e assertività, ne emerge chiaramente uno principale: la responsabilità individuale. Bisogna sempre obbedire agli ordini? Quando la disobbedienza diventa un dovere? Cos’è un ordine in un mondo che va all’incontrario, in cui ogni valore salta e si scrive la storia con una penna a inchiostro simpatico?

In questo labirinto di storie e significato, Cesco Magetti – con il suo cronico mal di denti, con quell’aria da “io manco ci volevo venire”, con la sua adorabile inadeguatezza – si ritrova a essere il perno perfetto di un ingranaggio maestoso, nel quale, a ogni ricerca, si rischia di trovare sempre una rotella in più.

Giuseppe Vignanello

Foto in evidenza di Lara Jameson: https://www.pexels.com/it-it/foto/stati-uniti-d-america-mondo-canada-messico-8828626/

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