Invocare qualcuno che ci cambi

Canzoni funebri per ragazze quasi morte, di Cherie Dimaline
(Bompiani, 2024 – trad. Alba Mantovani ) 

Winfred ha quasi sedici anni quando prende a raccontare a chi legge i cambiamenti fioccati nella sua vita negli ultimi tempi. In quanto figlia del responsabile del crematorio, lei abita da sempre con suo padre in un appartamento situato esattamente dentro il perimetro del cimitero: dalla sua finestra Win scorge distese di lapidi, guglie di mausolei e vette di cipressi.  
 
La madre di Win è morta poco dopo il parto, ma suo padre non ha mai dismesso l’espressione funerea del lutto: si tratta di un personaggio bidimensionale che nel corso della storia sembra continuare a sbiadire e involvere, piuttosto che acquisire matericità. È fra l’altro l’unico personaggio cui l’autrice destina questo trattamento, a intendere (forse) che è irreversibile una tale perdita di consistenza e abdicazione alla vita, quando viene tutta data in pasto al dolore e alla nostalgia.  
O perlomeno, dato che chi legge non conosce le cose se non attraverso gli occhi di Win, è così – stinto e amorfo – che lui le appare per tutto il tempo. 
 
Diversissima doveva essere invece la personalità della madre; pur non avendola conosciuta, Win è continuamente assediata da immagini di lei: la sua foto raggiante in soggiorno, la sua tomba in giardino, i suoi vestiti dismessi che adesso è Win a indossare
A raccontarle poi di sua madre qualche volta è zia Roberta, propaggine di quelle radici che la ragazza non sente come proprie, ma che pure s’inerpicano lungo la genealogia della sua famiglia: la madre era parte della comunità Métis, «nativa di sangue misto della Georgian Bay, la terra dalle dune di sabbia bianca che scivolavano nelle verdi acque del lago Huron come le zuccherine scogliere di Dover». Ed è sangue Métis anche quello dell’autrice, che fa specchiare in Win quindi un po’ delle sue radici. 
 
Win sostiene di aver ucciso la madre col suo corpicino infestante di feto, che non aveva trovato un utero ospitale entro cui rincantucciarsi e allora aveva preso a svilupparsi all’esterno:  

Sono cresciuta fuori dall’utero di mia madre come un crostaceo rosa. […] Se cerco di immaginarmelo, mi vedo come un grumo di gomma da masticare che un dio pasticcione aveva appiccicato su un lato dei suoi visceri. È saltato fuori che se fossi morta rimanendo annidata in un recesso buio del ventre di mia madre (invece di cadere dai margini dell’esistenza e finire in un aborto) il suo corpo avrebbe fatto di tutto per inglobarmi (p. 15).  

 
La regolare, monotona routine in cui Win e suo padre sono appartati viene messa a repentaglio da un avvertimento: giacché di recente gli affari al crematorio stanno andando male, il padre potrebbe essere dismesso dal suo ruolo e i due potrebbero essere sfrattati dall’appartamento. Per Win è lo sfacelo di ogni abitudinaria sicurezza.  
Ma proprio mentre si aspetta la sentenza, qualcosa comincia a cambiare: il cimitero sembra infestato da sinistre presenze e tale suggestione attrae un ciarlatano pronto a inserire il Cimitero Winterson come nuova tappa nel suo ‘tour dei fantasmi’: una ben congegnata trappola accalappia-turisti.  
 
Ammesso che quelle ombre siano solo superstizioni e non ci sia invece qualcuno che davvero sta manifestandosi, incastrato nel limbo tra la terra dei vivi e quella dei morti. In particolare, è solo a Win che quest’anima fa visita nella sua forma di ombra, ma con ancora addosso il ricordo della sua natura umana e della sua dolorosissima storia.  
Proprio questo spettro si fa per Win prima amica e primo amore, rappresentando per la protagonista un’occasione di conoscersi e scorgere quello che, nella sua bolla solitaria, non era mai riuscita a vedere. 
 
Per l’intrusione di questa componente paranormale che rimanda a non-morti, fantasmi e a un certo blando gusto per l’esoterismo che pure punteggia il racconto, pur non sfociando mai nel gotico, la storia sembrerebbe inserirsi lungo quell’asse genealogico che, nell’ambito della narrativa per adolescenti, discende da Twilight e passa poi per i suoi numerosissimi epigoni. Il canovaccio di questi intrecci si fonda solitamente sull’amore impossibile tra un essere umano (di norma una ragazza dipinta come disadattata, inizialmente fragile e che poi per difendere il suo amore si scopre risoluta e combattiva) e un essere ibrido, la cui natura umana è contaminata con qualcosa di surreale. Da qui le ragioni dell’impraticabilità dell’unione tra due nature contrapposte e incompatibili.  
 
Tuttavia, pur ricalcando l’ossatura di questo schema, l’autrice canadese Cherie Dimaline lo riempie con una polpa nuova: pur delineata con carnosa, materica consistenza, Phil altro non è che la cartina-tornasole del cambiare di Win. In questo consiste la funzione del personaggio, che non esiste che non in relazione alla protagonista, o meglio esiste proprio affinché lei possa finalmente guardarsi da un punto di vista altro, meno introverso e solipsistico.  
 
Prima di Phil, Win racconta della sua disastrosa avance a quello ch’era stato fin dalle elementari il suo unico amico, in cui lei si era sforzata di vedere un possibile, candidato primo amore. 
Etichettata come ‘strana’ a scuola, Win si è abituata presto a una desertica vita sociale; il che di contro ha significato vivere dentro un biotopo in cui l’Altro è un bacillo da rigettare. 
 E forse è per questo che l’età anagrafica di Win tradisce comportamenti che si addirebbero più che altro a una pre-adolescente: per lei ci sono state meno occasioni di crescere proprio perché è totalmente mancato il confronto con chi, con la sua alterità, cozza contro il nostro ‘io’, ci contraddice e mette in discussione. 
 
Lo stile dell’autrice è un rigoglio di immagini che proliferano su loro stesse: pur se l’azione si ambienta tutta nella vita della mente della protagonista, zampillano continuamente immagini capaci di tradurre l’astrazione del pensiero nella materialità del mondo. Altra ragione per cui il romanzo non si imparenta affatto con la discendenza Twilight che pure nominavamo: la forma non è piana o brulla, né la lingua rinuncia mai a pirotecnie immaginative o virtuosismi. 

Certo, a volte appaiono per quello che sono, e cioè nient’altro che virtuosismi di una lingua che si sa bella. E però per chi ama ‘entrare nella testa dei personaggi’ qualche narcisismo dello stile è un piccolo prezzo da pagare, se si fanno i conti col fatto che i personaggi schiudono un micromondo di pensieri che non in toto a volte ci piacciono.  
Questo è il piccolo universo che Win rappresenta e che, nel corso della storia, si allarga e fiorisce. 

Viviana Veneruso

(immagine in evidenza: https://www.pexels.com/it-it/foto/cimitero-lapidi-alberi-verdi-tiro-verticale-7777209/)

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