Un omaggio all’Hoffmann scrittore e operista

Ondina o l’ira del fuoco, di Irene Gracia
(Cencellada, 2023 – trad. T. Siciliano)

Il vincolo che lega il fantastico all’opera lirica è una curiosa e feconda costante nella breve vita di questo genere letterario, sviluppatosi tra l’inizio dell’Ottocento e la metà del secolo scorso. Ernst Theodor Amadeus Hoffmann è stato il più famoso dei suoi padri fondatori: nel saggio pionieristico Das Unheimliche (Il Perturbante), infatti, Sigmund Freud sceglie di partire proprio da uno dei suoi racconti, Der Sandman (L’uomo della sabbia), per cercare di comprendere il peculiare sentimento di incertezza ed esitazione che la narrazione fantastica genera nel lettore. Non tutti sanno però che Hoffmann fu attivo anche nei campi della composizione e della critica musicale: attenendosi all’identikit del genio romantico poliedrico e sperimentatore, nonché al destino impostogli dal suo terzo nome, «il falso Amadeus» non si limitò a riempire i suoi testi di riferimenti al melodramma, ma frequentò le scene in prima persona, facendovi rappresentare i suoi capolavori.

Circa trent’anni dopo la sua morte, il compositore francese Jacques Offenbach ne rese ancora più indissolubile il rapporto con lo spettacolo musicale, trasformandolo nel protagonista della sua opera più famosa, Les Contes d’Hoffmann (I racconti di Hoffmann), in cui lo scrittore tedesco canta con voce tenorile i suoi sfortunati amori tra le braccia dell’alcool e della Poesia. In questo modo si può dire che Hoffmann sia riuscito a servire l’arte in ogni sua possibile manifestazione: essendo stato anche pittore e soggetto di ritratti, per completare la lista aveva bisogno soltanto di farsi personaggio di carta. A questa mancanza ha supplito nel 2017 Irene Gracia, che lo ha posto al centro del suo ottavo romanzo, Ondina o L’ira del fuoco, pubblicato in Italia dalla casa editrice Cencellada nel 2023, con la puntuale traduzione di Thais Siciliano.

Probabilmente Hoffmann sarebbe rimasto molto colpito da questo elaborato omaggio in forma di romanzo – anche se definirlo tale è un po’ riduttivo. Irene Gracia infatti ha costruito la sua narrazione come un complicato e originalissimo gioco a intarsio: come la musica che lo anima e gli dà vita, il testo gioca su riprese e variazioni, incastrando tra loro personaggi e piani spazio-temporali diversi, assimilandoli e sovrapponendoli. L’autrice mescola i generi letterari e li mette in dialogo, permettendo alla sua narrazione di assumere quasi ogni forma possibile: poesia, epistolario, memoriale, racconto breve, indagine poliziesca, dramma familiare e cornice romanzesca si incastrano tra le pagine di Ondina come tessere di un mosaico. A mescolarsi tra loro sono poi le stesse voci che animano il testo, brulicante di personaggi e comparse che si librano come uno sciame attorno alla coppia protagonista, arrivando a raggiungere originalissimi picchi di espressione corale: si pensi a Clarisa, regina di Sirgén, grande pantomima teatrale in cui ogni personaggio a turno prosegue a raccontare la storia iniziata dagli altri convitati. Perfino la maternità rivendicata dal libro, infine, è ambigua: il volume si chiude infatti con una nota editoriale sul presunto manoscritto autografo di Johanna Eunicke, la Primadonna e narratrice della vicenda, creatura fatale che rapisce il cuore di ogni uomo, proprio come l’Ondina cui concede la voce.

Questo romanzo, insomma, è un’opera cangiante e metamorfica, che si adatta perfettamente allo spirito fantastico e si inventa una strategia dopo l’altra per mantenere alta la soglia di perturbante nel lettore. Segue una struttura fondamentalmente bipartita, escludendo il breve epilogo: la prima parte racconta dettagliatamente l’allestimento di Undine, con l’ambiguo e progressivo fondersi degli interpreti con i loro personaggi, tanto da non riuscire più a riconoscere i legami famigliari che li legano e a cambiare personalità, assumendo quella dei loro alter-ego. La seconda sezione, invece, inizia dopo il tragico incendio del teatro, avvenuto nel corso della tredicesima rappresentazione dell’opera: la protagonista viene sollecitata da Hoffmann a indire un banchetto, così da permettergli di indagare su un’eventuale congiura spingendo tutti i sospettati a bere e a intervenire, a turno, con un racconto di loro invenzione.

L’idea della cornice narrativa si innesta su una tradizione millenaria che va dalle epopee orientali e bizantine fino almeno ai già citati contes d’Hoffmann offenbachiani, e Gracia la sfrutta con destrezza, facendo interagire costantemente le novelle più brevi con la struttura portante della narrazione. Mentre raccontano, infatti, i personaggi sembrano persi in una nebbia simile a quella che aveva accompagnato l’allestimento di Undine; sono come in trance, immersi in un contesto onirico e sognante, distaccato dalla realtà e oscillante tra i regimi del vero e del magico. Le loro storie sono un compendio di topoi fantastici: il tema del doppio, dello specchio, del sosia dominano la scena, come anche i tanti riferimenti ai passaggi di soglia – e il teatro è la soglia per eccellenza, come lo stesso Hoffmann suggerisce nel suo racconto Don Giovanni. Il lettore che vorrà avventurarsi tra queste pagine si troverà in bilico tra il sonno e la veglia e incontrerà morti apparenti, statue animate, bambole piene di vita e ombre rubate: la fantasia vivacissima dell’autrice emerge guizzante dai suoi racconti, così ricchi di riferimenti puntuali al corpus fantastico, e riesce a tenere ogni comparsa a bada come un abile burattinaio.

Anche le maglie del tempo si fanno labili: questi testi vanno avanti e indietro nella storia dell’uomo, toccando il passato mitico della Grecia Antica, lambendo il Medioevo per poi passare agli sfarzi delle botteghe artistiche rinascimentali e agli orrori delle guerre a cavallo tra Sette e Ottocento. La realtà, in effetti, è presentissima nel romanzo: non solo Hoffmann, ma anche Johanna Eunicke è vissuta veramente e davvero, come la sua versione di carta, ha perso la voce e si è sposata con un pittore; e anche gli altri personaggi sono esistiti, come le relazioni che li hanno legati. Tutta la storia si gioca su questa ambiguità, perché la sostanza dei fatti riportati da Gracia non è così distante dal poco che si può leggere negli archivi: anche questo fa parte della maestria della narrazione, che contiene quel tanto di unheimlich che spinge il lettore a provare, anche solo per un istante, un frammento di incertezza. Molti tra i personaggi che si fanno narratori, inoltre, assicurano di aver conosciuto i protagonisti delle loro storie, e talvolta recano all’interno della cornice una traccia di questo contatto: un oggetto magico, capace di fare da tramite tra un livello e l’altro della narrazione, ma anche di tessere la rete perturbante per il lettore, che si ritrova a fare i conti più volte con questa incertezza.

Vera o presunta che sia la congiura ordita ai danni di Ondina e del suo compositore, infine, Gracia centra un punto importante: la colpevole messa da parte della componente musicale e “multidisciplinare” di Hoffmann, ai giorni nostri apprezzato quasi esclusivamente come scrittore. L’autrice di questo omaggio non teme il riferimento colto e dimostra di conoscere profondamente la musica e il carattere del suo protagonista, ma soprattutto, con il suo puro piacere di raccontare, regala una lettura che è quasi un abbraccio per il melomane appassionato (e per chi non sa ancora di esserlo).

Carlotta Rubatto

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