L’uomo che non voleva piangere, Stig Dagerman
(Iperborea, 2025 – trad. Fulvio Ferrari)
L’uomo che non voleva piangere, nell’ottima traduzione dallo svedese di Fulvio Ferrari, riunisce alcuni testi rimasti esclusi dalla traduzione italiana dell’unica raccolta di racconti data alle stampe dall’autore (Nattens lekar 1947, it. I giochi della notte, 1996) e altri, ancora inediti in Italia, apparsi su varie riviste nell’arco di una dozzina d’anni.
Stig Dagerman (1923-1954) è stato un autore prolifico e straordinario, dalla storia tragica. Anarchico, sindacalista, giornalista, ha debuttato come romanziere a soli 22 anni con Ormen (Il serpente, da noi recensito qui) e lasciato una quantità strabiliante di scritti tra romanzi, poesie, articoli, racconti e drammi prima di morire suicida giovanissimo, a soli 31 anni. I racconti inclusi nella presente raccolta testimoniano la grazia e la varietà della sua penna, capace di muoversi con disinvoltura tra generi diversi e ibridarli, ricercando effetti differenti, senza perdere in potenza. Non insensibile alle correnti letterarie che animavano il suo tempo e memore della lezione di autori come Kafka e Faulkner, nonché dei connazionali Strindberg e Johnson, integra suggestioni diverse e crea delicati equilibri stilistici e narrativi; nei suoi scritti, oscilla tra sperimentazione di atmosfere astratte, visionarie e angoscianti, cariche di simbolismi, e ritratti spietatamente realistici di una società abietta, che nasconde la sua connaturata crudeltà dietro una maschera di polita civilizzazione.
Gli strumenti narrativi impiegati variano, ma lo scopo resta unitario: l’indagine dell’umanità, specialmente dei suoi meccanismi più oscuri, grevi e opachi. Dagerman riesce a tagliare nelle zone più buie e intricate dell’animo, e le ritrae con precisione: mette questo suo talento a servizio di una satira sociale che non lascia scampo, tanto nitida da far male. La sua è una scrittura cattiva nel miglior senso del termine: perché non è facile scrivere bene delle cose come stanno, senza fare sconti e senza abbellimenti. Scrivere cattivi significa anche non aver paura di guardare in faccia le storture, di raffigurarle come tali; ed è doloroso, ma dà anche come un senso di conforto, riuscire a percepire che c’è qualcosa che vale la pena inseguire, oltre quella ‘dimensione del male’ che affligge ad esempio il protagonista de I vagoni rossi (ma che, in fondo, è la stessa che permea altri scritti, e che ha forse adombrato anche la vita stessa di Dagerman).
Scrivere cattivi, eppure senza perdere quel naturale senso della tenerezza che l’uomo è portato a cercare. Così l’autore descrive l’innata necessità di essere visti e riconosciuti, di essere amati, per trovare una forma di sollievo dalle miserie dell’esistenza: così la protagonista di Apri la porta, Rickard!, ma soprattutto l’indimenticabile voce di Dov’è il mio maglione islandese?, un flusso di coscienza allucinato e distorto dall’effetto dell’alcool, in cui Knut, tornato nel suo paese natale per il funerale di suo padre, ripercorre le vicende che l’hanno progressivamente alienato dai suoi compaesani e dai suoi stessi familiari, arrivando infine, inevitabilmente, a pensare al rapporto col genitore, rimasto fino a quel momento quasi sullo sfondo rispetto al resto. Per certi versi a questi affine il racconto Bon soir, che offre una delicata rappresentazione della pubertà maschile e delle insicurezze che porta con sé, nel misurarsi con coetanee che maturano prima e, anche per questo, intimidiscono.
Atmosfere visionarie, dark, a tratti fantastiche, in alcuni casi affini al genere hardboiled, accompagnate da una scrittura icastica, che visualizza mondi vividi con occhio quasi cinematografico, si ritrovano ad esempio ne L’uomo di Milesia e in Quando farà buio del tutto, mentre propriamente politico è C’era una volta un mese di maggio, pubblicato nel 1944 sul giornale anarco-sindacalista Storm. Caratterizzati da una più spiccata critica sociale, con derive quasi paradossali e pur, curiosamente, non troppo improbabili* e dialoghi che a volte sembrano strizzare l’occhio al teatro dell’assurdo, sono invece Il processo, Il condannato a morte e il racconto che dà il titolo alla raccolta, L’uomo che non voleva piangere. Quest’ultimo mette in scena una capitalizzazione dei sentimenti, ultima forma di controllo e privazione di libertà dell’uomo che ha già fatto del lavoro la sua vita.
Tra gli altri racconti, si segnala Il cane e il destino, scritto da un Dagerman adolescente e apparso per la prima volta nel ’41 sulla rivista del suo liceo, mentre ancora una spietata e lucida satira sociale si incontra nell’intenso La nostra località balneare, di notte; ha tutto il gusto del saluto, e convenientemente posto in esergo, Quando è tempo di andare. Un tempo che fa bene accettare e riconoscere.
Così, per un attimo, i ragazzi sono in piena luce e si fa in tempo a vedere, con gioia, che i loro volti sono tornati a respirare, che non sono più duri e contratti come durante il giorno.
‘Sono i pescatori di rifiuti che hanno dato fuoco a una catasta di sporcizia ‘, dice Sysifos. ‘Spesso c’è dentro del petrolio, del carburo o altri combustibili, e quando a quei poveri diavoli viene voglia di fare un po’ di fuochi d’artificio appiccano il fuoco a una catasta, pur sapendo che forse stanno bruciando il necessario a vivere per una settimana. Vivono con gli occhi bene aperti e non li chiudono né davanti al sudiciume né davanti alla bellezza’.
(La nostra località balneare, di notte, p. 187)
Con una scrittura lucida, netta, affilata, Dagerman incide parimenti nella carne dei suoi personaggi e dei suoi lettori, suscitando un male necessario e provando, forse, a risvegliare il bisogno di fare del proprio per non aggiungere alla bruttura.
Alessia Angelini
(immagine in evidenza a cura dell’autrice dell’articolo)
* Leggasi nota sulla corrispondenza tra il tema del racconto eponimo della raccolta e il lutto nazionale imposto agli Svedesi per la morte del re Gustav nel 1950, per la quale si rimanda alla postfazione curata del traduttore.
