In balia della fine: Ava Anna Ada

Ava Anna Ada, Ali Millar
(Edizioni SUR, 2025 – trad. M. Testa)

Che cosa è la fine?

Partiamo dall’inizio: tutti noi un giorno moriremo. Noi esseri umani siamo creature fragili e mortali, consapevoli della nostra finitezza ma al tempo stesso sempre occupati a trovare nuovi modi per allungare la vita, fregare la morte, distrarci dal momento in cui la signora con la falce spegnerà le luci della stanza. La vita è un flusso di casualità; secondo l’incisore e grafico Maurits Cornelis Escher la fascinazione che abbiamo per il caos è il motivo per cui ci piace imporre un ordine.

Frank Kermode, nel suo testo fondamentale The Sense of an Ending. Studies in the Theory of Fiction, afferma che sono le storie che ci raccontiamo, le narrazioni, grandi o piccole che siano, il nostro modo di dare un significato e una spiegazione logica e ragionale, un tentativo di sconfiggere il caos ordinandolo in una struttura fissa che necessita di due elementi fondamentali: un inizio e una fine. Per spiegare tutto ciò, Kermode fa l’esempio delle lancette di un orologio. Il tempo scorre, non inizia e finisce, ma se noi volessimo circoscriverlo in un campo limitato, convenzionalmente decideremmo che il tempo inizia e finisce con due ticchetti di lancette, il primo dei quali fa Tick e il secondo invece Tock. Le lancette di un orologio fanno lo stesso suono ma questo dettaglio non ci interessa perché noi ora abbiamo un Tick, un inizio del tempo, e un Tock, una fine del tempo.

L’intervallo tra i due suoni è lo spazio dentro il quale circoscriviamo il tempo e al suo interno
sviluppiamo la nostra storia, il romanzo che stiamo leggendo, il film che guardiamo, il periodo storico che vogliamo analizzare. Decidere quando segnare il Tock significa chiudere quel tempo, quella storia, e di conseguenza dare il senso ultimo della storia. C’è una differenza sostanziale tra chiudere il Novecento nel 1991 con la caduta dell’Unione Sovietica (come scrive Eric Hobsbawm nel suo Il secolo breve), farlo nel 1999 seguendo la numerazione o, come fanno in tanti oggi, decretarne la fine con il crollo delle Torri Gemelle. Allo stesso modo, proviamo a immaginare un film che amiamo e concluderlo mezz’ora in anticipo: in un classico film hollywoodiano, saremmo al punto in cui il protagonista perde tutto prima dell’atto finale. Il senso della storia sarebbe stravolto.

Non possiamo prescindere dall’avere una fine. Ma se invece quel Tock non arrivasse, cosa succede a una storia?

Ripartiamo dall’inizio: Tick.

Qui sulla Punta, dove il mare tocca ed eroda, succhia e tira, Noi li guardiamo arrivare; Noi li guarderemo andarsene; qui, dove la terra è passata di mano in mano così tante volte che nessuno sa più dove si trova, né in Inghilterra né in Scozia, né in Europa né fuori dall’Europa; più facile chiamarla solo La Punta, come fa la gente del posto;

A La Punta sono accorsi da tutto il Paese turisti e telegiornali, aspettano l’arrivo di una catastrofica Onda. La sua esistenza è solo una supposizione, ma chi ci crede attende sulla spiaggia il muro d’acqua. È un’estate torrida, che non lascia scampo nemmeno di notte. La crisi climatica ed economica ha epurato la vita dalle campagne, trasformato laghi in paludi, fatto scomparire gli animali, spinto i governi a dividere la popolazione in cittadini di serie A e serie B attraverso uno strumento, il Valorimetro. Se il numero è troppo basso, finisci deportato in un Centro di Smistamento; sembra un episodio di Black Mirror, Nosedive, in cui la gente ottiene una valutazione per ogni interazione sociale.

Questa storia non è un messaggio di avvertimento, e nemmeno una storia post-apocalittica in cui un evento ha decretato la fine e ora dobbiamo sopravvivere alla fase successiva. A La Punta la Fine forse è già arrivata e gli abitanti non se ne sono accorti in tempo, o sta per arrivare tramite l’Onda ma senza una vera certezza sui tempi. Siamo in quella che sempre Kermode definisce come fine immanente: siamo passati da uno stato di fine imminente a una fine estesa nel tempo tanto che ne è modificata la percezione, generando un cosiddetto “tempo della crisi”, uno spazio temporale di transizione.

E questo spazio, che noi adesso chiamiamo cambiamento climatico, è diventato un’entità di
dimensioni e grandezze così tali che noi non possiamo percepire come vicino o visibile; come scrive il filosofo Timothy Morton nei suoi saggi, siamo dentro a un iperoggetto. La sua natura non localizzabile, in grado di snaturare lo spaziotempo, la sua estensione e connessione con altri elementi, la sua forza gargantuesca, è tale che, anche se volessimo ipotizzare un evento che chiuda questo iperoggetto, non saremmo in grado di immaginarlo. E il tempo della crisi si è prolungato così a lungo che a un certo punto ti abitui, ti anestetizzi. Vivi la crisi, ci cresci all’interno, non puoi vederne i confini oltre i quali fuggire.

Convivevamo con tante piccole onde da così tanto tempo che un’onda un po’ più grande non ci sembrava poi la fine del mondo. Guardavamo i disastri che avvenivano in tv ma non riuscivamo a collegarli a noi stessi. Eravamo abituati a percepire ogni cosa come distante, incapaci di capire in che modo ci toccava. Qualunque cosa succedesse altrove, qui la vita proseguiva nella sua solita maniera prevedibile.

A La Punta arriva Anna insieme alla sua famiglia. Lei è una quarantenne influencer, ricca ed elegante, ama mostrare a chi la segue sullo Schermo la sua vita, la nuova casa dove sono andati ad abitare, un vecchio mulino ristrutturato, raccontare la sua routine quotidiana. Lontano dal telefono, Anna è una donna dissociata, che si imbottisce di pillole e si fa picchiare per non sentire il dolore per la morte della figlia Ada. Anna non riesce a gestire il lutto, e quando lo fa è solo perché lo sfrutta cinicamente per aumentare l’engagement, vendere corsi su come superare il lutto, rilanciare la sua immagine pubblica. Lo scollamento tra la sua persona e la sua rappresentazione è tale da divorare ogni possibilità di confronto con il marito Leo, troppo razionale e freddo per aiutarla, o con il figlio Adam, otto anni e un volto troppo simile a quello della sorella per non far male.

Dopo Ada mi ero fermata. A che serviva l’arte? La musica? Il cibo? E perfino il sesso? L’effimero momento di distrazione che offrivano rendeva solo più terribili i momenti in cui tornavo a pensare a lei. Quello che volevo era perdere sensibilità, così da poter avere presente cos’era successo ma senza provare nulla. Era quello lo stato che mi teneva al sicuro.

A La Punta vive Ava. È un’adolescente inquieta, solitaria, che si prostituisce per soldi per evitare di finire deportata insieme a sua madre. Non cerca il distacco dal dolore ma lo accoglie, il suo corpo è pieno di cicatrici o croste che strappa e colleziona in sacchetti di plastica. Ava odia il posto dove sta, si sente in trappola, è affamata di vita e sensazioni e, come ogni squalo che avverte la presenza del sangue delle sue prede, si avvicina pericolosamente ad Anna. E farlo è molto facile, dato che Ava assomiglia in maniera quasi perfetta a Ada: nome palindromo, come quello di Anna, con solo una lettera a marcare la differenza tra una ragazza viva e una morta.

Quanto era difficile avere tanta fame di mondo ma essere nata per vivere una vita che non conteneva nulla di ciò che volevi. Lei pensava che non avessi fame, quando in realtà ero piena di desiderio. L’unico modo per domarlo era non soddisfarlo, lasciarlo morire di stenti, metterlo in ginocchio.

Tra le due inizia un perverso gioco manipolatorio, impossibile da fermare, creato da due donne che non si fanno scrupoli a inseguire ognuna nell’altra l’oggetto del proprio desiderio. Anna esige da Ava un eco della figlia Ada; Ava in cambio si intrufola nella vita dell’altra, una donna di livello sociale migliore, e se ne ciba. La loro attrazione, anche carnale, si trasforma quasi subito in un gioco al massacro in cui nessuno si potrà salvare, a partire dal cane di Anna, passando per Leo e in particolare per Adam. Un bambino fragile, che mostra i primi segni di una futura psicopatia – colleziona insetti a cui strappa le ali per non farle andare in paradiso – e prova a connettersi alla sorella defunta Ada in modi che lo renderanno prigioniero delle macchinazioni di Anna e Ava.

Come se fossimo in Persona di Ingmar Bergman, ma con protagoniste delle donne incapaci di corrispondere a modelli femminili predeterminati e per questo mostruose, come quelle dei romanzi di Elena Ferrante, Ava si fonde in Ada che si fonde in Anna e viceversa, a volte trovando una sintonia malsana in cui il punto di vista di entrambe si unisce in un’unica voce, sino a un inevitabile punto di rottura.

Quando una persona smette di giocare succede che l’altra, quella che ancora si diverte, non sa come fermarsi. Non ha più niente da perdere, e allora la rabbia cresce. È quello il momento in cui bisogna stare attenti. È lì che si scopre davvero chi è la persona con cui si sta giocando, e cosa sarà disposta a fare pur di tenere vivo il gioco.

Ava Anna Ada, romanzo di esordio di Ali Millar e pubblicato in Italia da Edizioni Sur nella traduzione di Martina Testa, racconta ciò che succede quando la catastrofe sopraggiunge ma sembra non arrivare mai al culmine, di quando le regole sociali e personali morali non hanno più importanza. Lo fa attraverso una polifonia di voci, una prosa che come la lama di un chirurgo seziona le anime dei personaggi senza eccessi, diretta e funzionale, facendoci capire come si vive e cosa si desidera quando sembra tutto inutile perché siamo dentro alla fine. Una scrittura che lavora sui corpi, le cicatrici, i segni, come a recuperare una fisicità in un mondo che si riversa nel virtuale, e in questo modo recupera una dimensione reale, anche politica.

In Ava Anna Ada esiste una società allo sbando, la lotta di classe è stata persa dagli ultimi, da Noi. Noi sono un coro greco che apre il romanzo e inframmezza il racconto. Il loro compito è osservare come gli Spettatori di uno Schermo le vite di Ava e Anna, evidenziare le squallide cattiverie che subisce Adam e a tratti quasi adottare il bambino e prendere le sue difese, commentare cosa succede alla fine del libro, quando le strade di Ava e Anna forse si divideranno, e fare il conto delle vittime. Sarà proprio compito di Noi quello di tirare le somme della storia nell’ultimo capitolo, notare che come un’onda che si infrange sulla costa, un’altra ne arriva a seguire.

Raccontando un mondo che vive eternamente l’apocalisse e due protagoniste che affrontano un vuoto interiore e cercano di riempirlo cannibalizzandosi tra di loro, Ali Millar non solo disegna un perfetto esempio di climate fiction ma sembra dirci che il tempo è un flusso continuo, la storia si ripete sempre seguendo dei cicli, ogni lutto seguirà un altro e ogni cambiamento che faremo ne genererà sempre un altro. Ava Anna Ada afferma che la fine non esiste come termine ultimo ma è una condizione esistenziale dentro la quale dobbiamo guardarci dentro e cogliere una rivelazione (significato originale della parola apocalisse), un suono che per convenzione associamo a un Tick.

La fine è qualcosa che in realtà noi auspichiamo, desideriamo, perché è il solo modo con cui
possiamo dare un senso.

Tock.

Stiven Zaka Cobani

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