La Nottola è una rubrica curata da Stefano Vernamonti.
Racconta libri rimasti nascosti, nelle penombre della cultura, o al di fuori delle “novità editoriali”.
Ma non esiste regola senza eccezioni, e la Nottola non fa eccezione. Ogni dieci recensioni, una su un libro di recente pubblicazione, nella convinzione che si possa essere nascosti anche in piena vista.
Di nome faceva Arturo, Remo Rapino
(Edizioni Città Nuova, 2025)

Esistono ultimi e ultimi. Mi spiego meglio: esistono quei personaggi prometeici, vessati dalla vita, di cui subiscono i colpi tremendi e le cui storie sono quindi storie eroiche di resistenza, di rivalsa, di schiavi che spezzano catene fisiche e spirituali. Tempesta e assalto contro le ingiustizie del mondo. Esistono cioè i Martin Eden, o gli Ernest Everhard (Il tallone di ferro), o ancora i Jean Valjean (I miserabili), e mille altri ancora.
E poi esistono altri ultimi. Quelli che, più che essere schiacciati dalla vita, ne rappresentano l’ultima ruota; condotti – anzi, trascinati con le briglie – fra la polvere di un’esistenza a volte semplice, altre avventurosa ma sempre anonima, con poche gioie e molti dolori, fin quando alla fine dello spettacolo le luci si spengono e qualcuno passa a raccogliere le briciole, e spesso anche i cocci. Esistono cioè certe portinaie di condomìni signorili (L’eleganza del riccio), immigrati polacchi senzatetto (Storia di mia vita) ed esiliati volontari dagli altri e dalla vita (Il libro dell’inquietudine), che devono raccontarsi se vogliono provare a salvare qualcosa di loro stessi: perché è l’unico modo, perché nessuno lo farebbe mai al posto loro – salvo vispe bambine ancora incuriosite dal mondo e dalle portinaie.
Sarà per indole, sarà perché è forte e gentile come i suoi interpreti, la letteratura abruzzese ha sempre nutrito una certa predilezione per gli ultimi. Basti pensare soltanto a Fontamara, di Ignazio Silone, o alle poesie di Modesto della Porta. Quella abruzzese contemporanea, in particolare, sembra nutrirla per la seconda specie di ultimi: come l’arminuta di Donatella Di Pietrantonio, o gli sfasulati di Remo Rapino, come Bonfiglio Liborio e Rosinello Capobianco.
Anche Arturo Sabatini, il protagonista proprio dell’ultimo libro di Rapino, rientra in questo solco: manovale a giornata, “cafone” con un oppressore chiamato fame, che emigra dalla sua Casal del Campo in cerca di un’esistenza più dignitosa e finisce nella cittadina di Portonovo, portandosi dietro qualche speranza e un’andatura sghemba rimediata dopo una brutta caduta in cantiere. Ma la vita è poca ed è sempre quella, anche in città, per un manovale a giornata. Fin quando un pomeriggio, di rientro dal cantiere, un piccolo oggetto non si incunea nella vita di Arturo, deviandone gli ingranaggi:
«Il primo libro della sua vita Arturo Sabatini, ribattezzato Ciacià per il suo tartagliare parole, lo incontrò tornando a casa dopo il lavoro al cantiere. Erano giorni di fiato grosso, di sabbie e cemento in spalla tra silenziose imprecazioni, ripensamenti e voglia di vita altra […]. I fogli frullavano come le ali esauste dei passeri a fine giorno, quando all’improvviso lasciano i rami per altri luoghi, quelli che gli uomini legati alle certezze di terra riescono a malapena a immaginare […] in quel punto per caso passò Arturo, manovale a giornata, anni di fame, dolori e fatica, storto d’ossa e d’anima, a leggere bonarello sì e no»
Il protagonista di quel libro, con sua grande sorpresa, si chiama proprio Arturo; Bandini, per la precisione, anche se «avrebbe preferito chiamarsi John». Il romanzo che Arturo Sabatini, manovale a giornata, trova per caso è infatti Aspetta primavera, Bandini, di John Fante: la sua lettura segna l’inizio di una storia d’amore, di una storia che ogni lettrice o lettore vorrebbe fosse un giorno scritta su di sé, per celebrare il proprio legame con la carta stampata. Arturo legge, va a caccia di libri in ogni anfratto di Portonovo, e poi si innamora, sperimenta la perdita, impara un nuovo mestiere, racconta a chi non sa leggere. E alla fine, corona un sogno che nemmeno sapeva di avere.
Di nome faceva Arturo è un libro che racconta una quotidianità popolare di un mondo ormai per grandi pezzi sepolto, con una prosa quasi indulgente nel suo adattarsi gentilmente alle saggezze popolari, agli eventi e ai suoi protagonisti, alle descrizioni. In certi momenti si vorrebbe davvero tirare le briglie delle parole, per fermarsi un poco di più in quel piccolo cortile di casa dove Arturo, raccontando storie vicine e lontane, tristi e felici, insegna alla povera gente a sognare, a dimenticare le fatiche del giorno:
«Arturo […] prendeva appunti per non tralasciare alcunché, e così via via, sulla scena del cortile, davvero come in un teatro di provincia, scorrevano e s’inseguivano infinite filigrane di parole che raccontavano di nomi, di corpi, di amori incompiuti, di sogni spezzati, di sconfitte e di rivoluzioni mancate. Apparvero Romeo e Giulietta, quanti pianti quella sera e quante richieste di cambiare il finale della storia, ma niente, la storia è la storia, ha i suoi destini, come la vita che non la si può cambiare a piacimento»
I finali delle storie non si possono cambiare, e così neanche la vita dei poveri cristi costretti a lavorare tanto per vivere poco. La redenzione, se c’è, è solo interiore, e certi ultimi rimangono sempre tali, sospesi tra le pieghe di un’esistenza che li accetta ma non li riconosce. I ricchi hanno le case, i soldi, la polizia, i poveri hanno solo i sogni e la poesia, recita il muro di fronte casa di Arturo.
In una cosa però, forse, Arturo Sabatini somiglia a Martin Eden. Entrambi hanno un’andatura altalenante sulla terraferma, rimediata in un incidente nel primo caso, e dal fatto di essere un marinaio abituato all’ondeggiare dei ponti delle navi nel secondo. Ed entrambi supereranno questo difetto tramite la cultura: tuttavia, mentre per Martin quest’ultima rappresenterà il mezzo necessario per elevarsi a una condizione di agiatezza borghese, per spogliarsi delle sue vestigia proletarie – culturali e fisiche – Arturo perderà il proprio difetto di andatura solo in via temporanea; ma allo scopo sarà comunque sufficiente il semplice piacere della lettura. Come a dire, tutto ciò che serve è qui, le parole sono tendini e ossa. Ci sono ultimi e ultimi, è vero, ma entrambi sono incarnazioni dei primi due comandamenti del lettore: la cultura è un mezzo per migliorarsi, ma è anche un fine in sé stessa. Culture for culture’s sake. Anche se forse Arturo Sabatini, manovale a giornata, di certo preferirebbe più qualcosa come «la poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve».
Stefano Vernamonti
