Dal tuo terrazzo si vede casa mia, Elvis Malaj
(Racconti Edizioni, 2017)
Elvis Malaj è nato in Albania nel 1990, è arrivato in Italia nel 2005 e dodici anni più tardi ha pubblicato il suo esordio, in italiano, Dal tuo terrazzo si vede casa mia, per il quale è arrivato nei 12 semifinalisti del Premio Strega 2018.
Non si inizia mai una recensione con la biografia dell’autore, ma in questo caso l’eccezione è necessaria. I dodici racconti che compongono la raccolta, sin dalle primissime frasi, infatti, svelano che ciò che stiamo leggendo è differente: spesso, per quanto interessanti possano essere dei racconti o romanzi che leggiamo, questi potrebbero essere scritti dal loro autore così come da chiunque altro; Dal tuo terrazzo si vede casa mia, invece, è così pregno di peculiarità stilistiche e tematiche da non poter ammettere che un unico autore – e il lettore esigente non può che gioirne.
Sono racconti piacevoli, avvincenti, divertenti, che, salvo alcune eccezioni, vedono per protagonisti giovani ragazzi albanesi in Italia, possibili alter ego dell’autore così come di un’intera generazione di ragazzi stranieri cresciuti italiani. La giovinezza da una parte e l’identità albanese dall’altra sono i due mari che Malaj scandaglia, offrendoci un puntuale e mai banale spaccato della nostra società.
Che siano italiani come Giuseppe e Maria – la quale “dopo una lunga ricerca su internet aveva scoperto di essere ancora vergine” (p.21) – o più spesso albanesi ormai trapiantati in Italia, i ragazzi descritti da Malaj condividono la stessa confusione e incertezza, il medesimo disorientamento per i rapporti umani, per il futuro, per il senso da dare alla loro esistenza. Alcuni mollano tutto e vagano a lungo in cerca di un posto che faccia per loro, come Agron e Silvia del racconto A pritni miq?, qualcun altro finge che il proprio amico sia stato appena investito per sfuggire da un insostenibile appuntamento con la ragazza che desiderava, come Gjokë de L’incidente.
Forse il caso più emblematico è Kastriot, dell’ultimo racconto, Morte di un personaggio – a mio parere il racconto probabilmente più riuscito, brioso e travolgente. Un ragazzo che prima si è iscritto alla facoltà di Fisica “per motivi di stile” e perché “non dotato di senso pratico”, poi a quella di Filosofia, ma che in realtà voleva essere soltanto un romanziere. E nelle pause dalla scrittura, anche a rischio di essere arrestato, si arrampica sul terrazzo di una vicina per annaffiare le piante che questa, in vacanza, stava lasciando seccare. Farà qui l’incontro con la figlia della padrona di casa, Veronica, da cui si scateneranno numerose vicissitudini.
(Curiosa è qui la simmetria con la biografia di Malaj, anche lui studente prima di Fisica e poi di Filosofia (1).)
La particolarità sta nel fatto che lo smarrimento e le incertezze dei ragazzi sono trattate da Malaj non con i toni seriosi di una critica sociale come ci si potrebbe attendere per simili tematiche. Malaj sembra quasi giocare con una condizione che sembra egli stesso ben conoscere, e lo fa attraverso dialoghi serrati, briosi, realistici e davvero ben fatti, e con una prosa ironica, in apparenza semplice eppure nient’affatto banale – in cui si mescolano molteplici livelli linguistici, ora più alti ora più bassi, ora un gergo giovanile e ora più scurrile (2), a cui si somma anche un po’ di albanese. Non manca affatto di empatia, non eccede mai nell’irriverenza, semplicemente il suo racconto è guidato da una leggerezza, quasi da una gioia che è forse la gioia stessa di raccontare, finanche da quella che sembra la genuina spontaneità di chi non corre il rischio di prendersi troppo sul serio.
Questa levità come approccio alla scrittura persiste anche laddove, più che della gioventù in sé, si parla – a volta sì anche mediante personaggi giovani – dell’Albania e di quello che significa essere e sentirsi albanese. Anche qui Malaj non si risparmia un’ironia che è anche autoironia. Anche quando si mettono in banco quelli che sono i pregiudizi, sia degli italiani per gli albanesi ma anche degli albanesi per gli italiani, si è disposti a trattare il tutto senza pesantezza o risentimenti.
Eppure una differenza c’è: nei racconti in cui il tema delle sue radici è più centrale, e soprattutto negli unici due ad avere ambientazione albanese e non italiana, come La carriola o Le scarpe (che si apre col nostalgico esergo “Alla mia Albania”), si avverte un sostrato di malinconia e una sensazione di ineluttabilità, e quasi anche di ferocia.
Ecco che allora, le peculiarità che in apertura avevo anticipato iniziano ad apparire. Elvis Malaj ha composto una raccolta davvero molto interessante, in cui si mescolano la sua identità albanese e quella italiana. Il duplice sguardo al paese natio e a quello d’adozione (esattamente come il terrazzo a cui arrampicarsi e da cui vedere la propria casa) è filtrato attraverso una prospettiva originale e davvero peculiare, non fine a se stessa ma messa al servizio di una narrazione spedita, divertente e anzi molto spesso davvero esilarante. Malaj ha una voce che mancava nel panorama editoriale italiano. La sua giovane età ci suggerisce che sentiremo a lungo parlare di lui, a partire dalla meritatissima entrata nella dozzina del Premio Strega. Questo perlomeno il nostro augurio.
– Giuseppe Rizzi –
Leggi qui l’intervista all’editore di Elvis Malaj, Emanuele Giammarco di Racconti Edizioni
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(1) https://www.illibraio.it/elvis-malaj-597630/
(2) Traggo uno dei possibili esempi da pagina 33, tra i più esilaranti, per dare un’idea:
“Hai solo quindici anni e hai già fatto sesso?! Ma vieni qui, il playboy di papà!” aveva detto pieno di entusiasmo, rifilandogli un paio di pacche sulle spalle. “Bashkim, hai sentito? Ha fatto sesso! Lui è un tipo così, zitto zitto, se ne sta in disparte, ma alla fine se le fa tutte. Eh, come crescono in fretta i figli. Ieri era un bambino e oggi è già grande.”
“Ma papà, i dolori al culo quando smettono?”
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