
Pierric Bailly, scrittore francese classe 1982 pubblicato in Italia da Edizioni Clichy, ha la voce potente e sincera che contraddistingue ogni grande autore. Non ha dubbi a riguardo chi legge i suoi libri e ha espresso con convinzione questa opinione anche Marco Missiroli, che ha dialogato con l’autore al Salone Internazionale del Libro di Torino riguardo L’uomo dei boschi, suo ultimo romanzo.
Abbiamo chiacchierato con Bailly dopo la presentazione riguardo quel che rende quest’opera particolarmente originale e inusuale, cioè in primis il suo carattere autobiografico: si tratta infatti del racconto dei giorni immediatamente successivi alla morte di Christian Bailly, padre dell’autore, caduto da un dirupo nelle montagne del Jura, sua terra d’origine.
La voce sincera che narra la vicenda, ha raccontato Bailly, era l’unica possibile per scrivere la sua storia: ogni altra scelta sarebbe stata un tradimento. In un primo momento aveva infatti tentato la strada della fiction, ma il risultato non era stato convincente: era necessario che fosse lo scrittore stesso a parlare e che il racconto fosse vicino alle sue emozioni. D’altra parte, Bailly osserva che la verità è facile da manipolare: è vicina a ciò che è impalpabile, non ha forma fissa, e l’ambiguità della morte di suo padre, della quale è impossibile stabilire con certezza il carattere accidentale, è un’esempio di questa essenza inafferrabile del vero.
Ne L’uomo dei boschi sono presenti, tuttavia, le strutture tipiche di un romanzo: il percorso di crescita del protagonista, ad esempio, segue lo schema tipico di un romanzo di formazione. È quindi la vita che somiglia alla letteratura o la letteratura che non può fare a meno di somigliare alla vita?
P.B. Nel mio caso, la letteratura è semplicemente il mio modo di affrontare la vita. La mia reazione alla morte così particolare di mio padre è stata scrivere un libro. Scrivere questo libro mi ha aiutato a superare questo momento e mi ha trasformato.
Nonostante sia un romanzo sulla morte, L’uomo dei boschi è scritto con uno stile e un linguaggio piacevole e sereno. Come ha lavorato sulla costruzione di questa voce?
P.B. Per questo tipo di libro è stato necessario usare degli strumenti linguistici e stilistici delicati. Era necessario che mantenessi certe distanze per poter parlare di questo tema. Se mi fossi affidato troppo allo stile, se avessi fatto troppa letteratura, mi sarei necessariamente allontanato dall’obbiettivo e non avrei potuto raccontare ciò che succedeva. Non avrei rispettato la verità. Per raccontare una storia simile dovevo in qualche modo trattenermi, trovare un pudore che mi permettesse di raccontare le cose così com’erano. Se lo scrittore avesse preso il sopravvento avrei tradito il mio proposito.
La natura aspra e fiabesca dello Jura ha avuto un ruolo fondamentale nella vita di Christian Bailly ed è centrale anche nel romanzo.
P.B. I paesaggi del Jura hanno influenzato tutta la mia vita e tutti i miei libri. Sono cresciuto in un piccolissimo paesino delle montagne e quella è stata la mia realtà. Anche ne L’amore ha tre dimensioni [Ed. Clichy, 2013] il protagonista è originario del Jura e alla fine vuole ritornarci. Adesso io vivo un po’ nel Jura e un po’ a Lione. Dopo la morte di mio padre sono tornato nel Jura e il libro che sto scrivendo adesso parla di quei luoghi. Ho bisogno di avere entrambi i posti, di vivere entrambe le situazioni: solo nel Jura ho la calma necessaria per poter scrivere.
Qual è l’atteggiamento verso la letteratura autobiografica nel panorama letterario francese e internazionale?
P.B. Spesso c’è un atteggiamento sospettoso verso questo tipo di letteratura. Ciò che si percepisce è che per essere riconosciuti come autori sia necessario scrivere fiction, nonostante la nutrita tradizione letteraria francese nell’ambito dell’autobiografia. Scrivere delle proprie emozioni fa quasi paura, la letteratura intima viene percepita come femminile, quasi che solo le donne possano sentire il bisogno di raccontarsi.
Perché esiste questo pregiudizio nei confronti della letteratura autobiografica?
P.B. Perché è una letteratura che tocca corde intime, personali, che spesso la gente preferisce evitare di guardare. Generalmente si preferisce quindi una letteratura che parli del mondo. Secondo me, invece, è molto più interessante capire e scrivere come il mondo interagisce con noi e agisce dentro di noi.
L’uomo dei boschi è ben fedele a questo proposito introspettivo: è un’opera che Bailly ha costruito perché ogni parola somigli a suo padre, perché non si muore mai del tutto finché qualcuno rimane in vita per raccontare la nostra storia: e infatti, con il piglio tipico dei grandi scrittori, l’autore trasforma la sua personale elaborazione del lutto in un messaggio universale.
A cura di Loreta Minutilli
n.b. Questo articolo è la rielaborazione della presentazione de L’uomo dei boschi tenutasi al Salone del Libro di Torino venerdì ’11 maggio e del colloquio avuto con l’autore nello stesso giorno.
In copertina: il villaggio di La Frasnée nel Jura, dove si svolge il romanzo.
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