“Un romanzo russo”, ovvero il viaggio introspettivo di Emmanuel Carrère

Un romanzo russo – Emmanuel Carrère
(2018, Adelphi, trad. di L. Di Lella e M.L. Vanorio)

713ca76b1ff7379cdd799df6270a37ef_w600_h_mw_mh_cs_cx_cyMi dico: è questa la storia, ma non ne sono convinto. Né che sia questa né tantomeno che sia una storia. Ho voluto raccontare due anni della mia vita, Kotel’nič, mio nonno, la lingua russa e Sophie, nella speranza di riuscire a catturare qualcosa che mi sfugge e mi tormenta. Ma ancora oggi questo qualcosa mi sfugge e mi tormenta”, riconosce l’autore quando la sua opera è ormai quasi alla fine.

Un’opera indefinibile, che assomiglia al romanzo e all’autofiction, a un diario d’amore e un reportage, a una confessione e a una lunga bugia, a un tentativo di ritrovare qualcosa fuori di sé e a quello contemporaneo di non perdersi. Una vicenda narrata in prima persona dallo stesso Carrère, che cambia continuamente prospettiva e destinatari, intenti e pensieri.

La storia si apre con un sogno erotico fatto durante un viaggio in treno notturno, con il quale il protagonista si sta dirigendo nei pressi di Mosca, nel paese di Kotel’nič. Lì ha intenzione di indagare su un prigioniero ungherese arrivato mezzo secolo prima in un ospedale psichiatrico e che era stato dimenticato. Nel frattempo, però, il suo intento è anche quello di riappropriarsi di una lingua russa che a casa non parla più e che vive nel suo ricordo solo attraverso la tata che aveva da bambino.

Parlare in russo senza tentennamenti equivarrebbe a mettersi in contatto con una parte della sua interiorità che gli sfugge, con un tassello della sua esistenza che, finché è assente, rende tutto ovattato e intangibile, problematico e impossibile da decriptare. E, intanto, il personaggio ha speranze che riguardano tanto la sua famiglia d’origine quanto il rapporto con la compagna Sophie.

Da un lato, infatti, ritrova le tracce del nonno materno, accusato di collaborazionismo e scomparso in circostanze misteriose. L’eco del suo antenato ha avuto delle conseguenze inestirpabili per i familiari che ha conosciuto, in particolare per sua madre, e la resa dei conti e la stesura del libro gli fanno tirare fuori dall’armadio uno scheletro ancora pericoloso e portatore di sofferenza.

Fra suicidi e follia, orrori e racconti intimi, dall’altro lato l’autore non manca di dedicarsi alla propria storia d’amore, la quale ha preso una piega inaspettata. Sophie si è innamorata di un altro, di cui è diventata l’amante per poi rimanere incinta. Convinta di amare ancora Emmanuel, abortisce poco dopo e continua a ripetere al compagno di non volerlo lasciare per ricominciare da capo con il giovane Arnaud. La coppia, tuttavia, è ormai avvelenata dall’accaduto e oscilla fra gelosia e tenerezza, crudeltà e perdono, senza riuscire salvarsi.

Il cerchio si chiude nell’unica maniera in cui avrebbe potuto, e con una lettera dedicata alla madre dell’io narrante, che fin dall’inizio era contraria all’idea che determinati trascorsi venissero resi pubblici e re-interpretati dall’autore. “Forse mi sbaglio, ma credo, mamma, che nei rari momenti in cui sei sola con te stessa tu soffra”, le scrive allora il figlio. “E in un certo senso questo mi rassicura”.

Perché, nonostante il dolore e nonostante certi traumi, a prescindere dal fatto che alcuni fantasmi non muoiano mai e che da alcune tragedie non si guarisca, “non ho avuto scelta. Ho ereditato l’orrore, la follia e il divieto d parlarne. Ma ne ho parlato lo stesso. È una vittoria” ed è una dedica all’unica donna che Carrère abbia saputo amare con estremo trasporto, oltre alla piccola figlia che ha avuto da poco.

Ed è, naturalmente, una vittoria scritta con autenticità, con una penna che non mente, con un tono tormentato e assetato di risposte, con la stanchezza di chi non fa che aspettare e con la determinazione di chi guarda in faccia le ombre della vita e le prende per quello che sono, senza edulcorarle né trasformarle. Dalla lingua di Carrère, a metà fra il francese della ragione e il russo dell’inconscio, si rimane empaticamente avvolti e travolti, consapevoli del fatto che una salvezza definitiva sia irraggiungibile, ma che dalle maledizioni che ci si autoinfligge si possa guarire.

Un manoscritto che assomiglia all’attraversamento di un’enorme distesa di sentimenti e riflessioni, da cui si emerge esausti e fragili, sebbene integri. Una confidenza raccontata a bassa voce, ma con fermezza. Un continuo flusso di coscienza rivolto ora all’uno e ora all’altro, che in Italia è arrivato nella nuova edizione Adelphi con la traduzione di L. Di Lella e M.L. Vanorio in una resa struggente e spietata, dalla quale si riemerge sbigottiti e commossi.

(Eva Luna Mascolino)

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