La caduta del cielo, Davi Kopenawa e Bruce Albert
(Nottetempo, 2018)
“Voi non mi conoscete e non mi avete mai visto. Vivete in una terra lontana. Ecco perché voglio farvi conoscere quello che gli anziani mi hanno insegnato.” Se queste parole verranno comprese dai bianchi, “la nostra gente cesserà di morire in silenzio, all’insaputa di tutti, come tartarughe nascoste nella terra della foresta”.
Chi parla è Davi Kopenawa, sciamano yanomami, un gruppo etnico che abita la foresta amazzonica al confine tra Brasile e Venezuela. L’etnografo francese Bruce Albert ha vissuto presso di loro per decenni, ha raccolto il lungo racconto della vita di Kopenawa e ne ha fatto un’opera imponente (1059 pagine conta l’edizione italiana di Nottetempo, nella traduzione di Palmieri e Lucera). Una confessione autobiografica interessante e avvincente quasi come un romanzo in prima persona; un’opera nata dalla necessità di portare alla luce un popolo, la sua storia, soprattutto le ingiustizie e i soprusi subiti, al fine che questi possano cessare.
È diviso in tre parti e dura circa 650 pagine il racconto della vita di Davi Kopenawa (il resto dell’opera è composto da prefazione, postfazione, nota metodologica, indici, mappe, glossari, appendici, note, dacché il racconto in sé non è mai interrotto da riferimenti teorici, interpretazioni antropologiche o in generale dalla voce di Albert).
Nella prima, Divenire altro, siamo introdotti alla complessa e affascinante cosmologia degli yanomami, dalla creazione del mondo e dell’umanità da parte di Omama al rapporto degli umani con gli spiriti xapiri, che proteggono dalle sofferenze e vendicano dai dolori. Kopenawa ci racconta la sua giovinezza, la volontà di diventare uno sciamano e l’iniziazione a cui è stato sottoposto dagli anziani maestri. Per poter diventare uno sciamano e poter vedere gli xapiri, l’aspirante deve resistere agli effetti della yakoana, una polvere estratta dalla virola che viene soffiata all’interno delle narici. Solo dopo quest’assunzione si possono vedere gli spiriti (la virola, non a caso, è una pianta dalle proprietà allucinogene).
Nella seconda, Il fumo del metallo, assistiamo all’incontro degli yanomami coi bianchi. Prima coi missionari cristiani, che esortano gli yanomami a credere in Teosi per salvarsi dalla dannazione dell’inferno. Con intuibile pressione psicologica, i missionari deturpano l’indentità culturale e morale dei yanomami. “Tutti pensavano: ‘Se non imito Teosi con gli altri, brucerò da solo nel fuoco di Xupari!‘” (p.326)

Ma l’evangelizzazione non si dimostra facile fino in fondo. Non mancano le ribellioni da parte degli yanomami, quando le preghiere a Teosi non bastano a far salvare i membri della comunità dalla morte, o quando i missionari portano nelle proprie capanne le donne degli yanomami. Tutto questo farà compromettere la fiducia nei loro confronti. “I nostri anziani credevano che, se i bianchi possedevano davvero le parole di Teosi, non potevano toccare le nostre donne. Altrimenti significava che erano dei bugiardi e che Teosi non esisteva” (p. 346). E dopo i missionari sarà la volta dei cercatori d’oro, che dispensano violenza e massacri nei villaggi, e gli yanomami si difendono in quelle che diventano vere e proprie battaglie.
Nella terza, La caduta del cielo, Kopenawa lascia la sua terra per parlare del suo popolo nella terra dei bianchi. “Mi dissero: ‘Devi difendere la foresta del tuo popolo! Dobbiamo parlare insieme contro coloro che vogliono impadronirsi delle nostre terre! Altrimenti, finiremo per scomparire tutti, come i nostri antenati prima di noi” (p. 520) Questo è lo stesso motivo che lo spinge a raccontare a Bruce Albert la sua storia: rendere i Bianchi consapevoli dello sterminio degli yanomami e della distruzione della loro foresta, affinché tutto questo possa avere fine. Per Kopenawa la parola rappresenta uno scudo dai soprusi, uno strumento per ripristinare la giustizia. A questo dedica la sua vita.
Dal racconto di Kopenawa emerge anche la visione che egli e il suo popolo hanno dei Bianchi, delle loro strane, assurde abitudini. In particolare egli non riesce a comprendere la loro/nostra spregiudicata ricerca di cose immateriali senza alcun valore. “Le cose che i Bianchi estraggono con tanta fatica dalle profondità della terra, i minerali e il petrolio, non sono cibo. Sono cose malefiche e pericolose… Per i nostri avi l’oro non era che pagliuzze brillanti sulla sabbia dei fiumi della foresta.” (pp. 479-486). “Noi scambiamo i nostri beni con generosità per estendere l’amicizia tra noi. Se non lo facessimo, saremmo come i Bianchi che, a causa delle loro merci, si maltrattano di continuo.” (p. 561)

Come da sempre il racconto etnografico permette, il conoscere una cultura altra rispetto alla nostra diventa l’occasione per conoscere in particolare noi stessi. E si ripete, come un miracolo, la stessa domanda che sopravvive ancora da Montaigne: Chi è davvero il selvaggio?
Tale ribaltamento di prospettiva, proprio del genere, è qui esaltato dalla narrazione in prima persona, così l’io è l’io, ma è un altro. Non un estraneo che guarda noi, non semplicemente noi che guardiamo un estraneo, ma l’estraneo che ci porta in un mondo dove la cultura dominante è la sua, dove l’altro siamo noi; e dirige il nostro sguardo, fa guardare noi stessi come noi non ci siamo mai potuti vedere. Ci offre nuove lenti per vedere, nuovi strumenti per comprendere. Dice Albert nella sua postfazione/nota metodologica: “E così, nel migliore delle ipotesi, mentre crede di raccogliere dati, l’etnografo viene rieducato.” (p. 725), e con lui, aggiungo, anche il suo lettore.
Per concludere, La caduta del cielo è un’opera importante, preziosa, interessante. Il racconto della vita di Davi Kopenawa non è banalmente o arrogantemente una lezione educativa per il bianco a priori cattivo da parte dell’Altro che è a priori buono. No. Semplicemente – da cui l’importanza intrinseca delle discipline etno-antropologiche – ci ricorda che ciò che siamo noi, quello in cui crediamo, le nostre strutture del pensiero, le nostre abitudini e azioni, tutto è contingenza, tutto è così non perché l’essere dev’essere, ma perché è solo uno degli infiniti modi possibili, né più né meno, né meglio né peggio a prescindere.
Certo, si potrebbe convenire sulla saggezza di Kopenawa, del suo modo così genuino di intendere il mondo, la vita e i rapporti umani, lontano da logiche di convenienza e di profitto, ma questa è pur sempre una visione soggettiva di chi scrive. Indubbio è invece che la migliore lezione (quanto mai attuale), in generale, è poter, anche solo per qualche ora, indossare i panni di un altro, e vedere le cose da una prospettiva diversa.
Ognuno di noi è l’altro di qualcuno.
– Giuseppe Rizzi –
