Conversazione faceta con colui che ha scritto Cometa

Andrea Zandomeneghi – co-direttore di CrapulaClub – ha incontrato Gregorio Magini, autore di Cometa per Neo Edizioni. Lo ha intervistato, e noi dell’Ircocervo ospitiamo questa intervista con grande piacere.

AZ) Ciao Gregorio, anzitutto grazie di aver accettato quest’intervista. Come sta andando il libro, la tua ultima fatica, Cometa, per i tipi Neo? Che risposte stai avendo dai lettori, che aria si respira alle tue presentazioni?

Gregorio-Magini-Cometa-Neo-Edizioni--982x540GM) Grazie a te Andrea. Cometa è uscito da due settimane, è presto per dire come sta andando, dobbiamo ancora entrare nel vivo. Personalmente, mi sto abituando all’idea di non essere più perfettamente libero di non esistere. Alla fine di questa giostra alcune centinaia, spero alcune migliaia di persone avranno letto il libro, farà parte della loro coscienza. Questo mi eccita e mi spaventa. Provo a tratti una profonda vergogna per aver avuto la presunzione di pubblicare. Subito dopo mi esalto come se avessi rotto chissà quali legami, varcato chissà quale cancello. “Sai che fra un’ora forse piangerai / poi la tua mano nasconderà un sorriso: / gioia e dolore hanno il confine incerto / nella stagione che illumina il viso.” Ecco, un po’ così, solo che non sono la Vergine Maria e quindi lo spettacolino è meno grazioso che grottesco. Vero è che del tutto vergine non ero, Cometa è il mio terzo romanzo, ma il primo, La famiglia di pietra, lo abbandonai appena nato (non ero pronto per crescerlo) e il secondo, In territorio nemico, essendo collettivo, non è mio nello stesso senso, lo considero figlio del popolo. Invece Cometa, per abbandonare la trita metafora libro-figlio (che poi a ben guardare i libri non nascono come gl’infanti umani che hanno bisogno di tre o quattro lustri per andare da sé, sono più simili agli ungulati, due zoppicamenti e via), sta già in qualche modo cambiando il mio modo di rapportarmi con gli altri, mi fa sentire non più solo un individuo ma anche, come dire, una funzione culturale. È spersonalizzante, come tutto ciò che allarga gli orizzonti. Poi certo, finite le presentazioni, uscito il libro dagli scaffali, la finestra si chiuderà; ma non del tutto, spero, spero di costruire dei rapporti duraturi con i lettori.

AZ) Quali saranno i tuoi prossimi appuntamenti?

GM) Per il calendario presentazioni vedi https://gregoriomagini.it/ oppure il Facebook di Neo Edizioni.

AZ) Quando hai iniziato a scrivere e perché?

GM) Avevo sedici anni e c’era questo foursome platonico tra me, due miei amici e una ragazza che per qualche tempo era parsa indecisa tra uno di noi tre. Allora scrissi una fiaba in cui una splendida fanciulla era innamorata di tre ragazzi e siccome non si sapeva decidere trai tre, si sedevano attorno a un falò e ognuno raccontava una storia. Il narratore della storia più bella avrebbe conquistato l’amore della fanciulla. Non mi ricordo che cosa raccontavano, ma naturalmente alla fine lei non sapeva decidersi e pur di non fare brutta figura andava ad affogarsi nel Lago della Notte, e la luna si metteva a piangere. Il giochino funzionò perfettamente: la nostra amica smise di frequentare tutti e tre, mai più vista. Il problema è che non lo feci apposta: avevo iniziato a scrivere per conquistarla, non per cacciarla. Ma qualcosa s’insinuò e mi costrinse a quel finale. Dopo più di vent’anni c’è ancora questa dinamica, tra l’usare e l’essere usato da ciò che scrivo.

AZ) Eri portato per la scrittura? Per cosa eri portato?

GM) Pensavo di non essere portato per niente poi a 16 anni ho letto La montagna incantata dove dice che gli scrittori sono tutti artisti falliti, musicisti falliti, pittori falliti, attori falliti, e così ho capito che ero uno scrittore.

AZ) Da quello che dici emerge che la scrittura è per sua natura un fallimento di qualcos’altro. Ma perché di un’altra arte o di una singola cosa? La scrittura non potrebbe essere invece il fallimento della vita? Kundera dice che la scrittura è l’unico fattore etico umano, consiste quest’etica nel dar conto della consapevolezza e aumentare questa consapevolezza di quell’immane fallimento che è l’uomo, per il tramite della scrittura, lo strumento a questo scopo preposto, in verità, meglio, non la scrittura, ma nello specifico il romanzo, per come s’è sviluppato negli ultimi tre secoli. In sostanza, quale è il rapporto tra fallimento – scacco matto esistenziale – e romanzo?

GM) Aspetta a generalizzare: ho detto che mi sono identificato nell’idea del ripiego che trovai in Thomas Mann, ma non pretendo che la mia esperienza valga per tutti. Allo stesso modo, certo, il romanzo come consolazione, riscatto simbolico per il fallimento di un’esistenza o persino dell’intera umanità, lo capisco, ma io non sono così e non ho questa fede nella letteratura. Una vita o una specie vivente nella sua genericità non possono mai fallire (a meno che non si considerino morte ed estinzione come fallimenti, ma perché si dovrebbe, se non c’è alternativa?). Serve un passaggio intermedio, una specificazione: prima di fallire devi esserti dato una missione. Io ero incapace di cantare o di muovere le dita agilmente sulle corde di una chitarra elettrica, attività che avrei voluto coltivare, perciò ripiegai letteralmente sulla tastiera. Spesso vorrei scrivere come si suona un pianoforte, cera anche una scena in Cometa (che credo di aver poi tagliato) in cui Raffaele si pavoneggia con Fiorella con questo paragone. Seguendo sempre Tonio Kröger, parlerei dunque più di inettitudine alla vita, che di fallimento. Un inetto guarda un fallito e si sente tranquillo – se qualcuno c’ha colpa, non è lui. Per l’inetto, il problema non è riuscire, è iniziare.

(Attenzione comunque: Thomas Mann si prese la sua rivincita sulla musica che non gli riusciva scrivendo pagine come movimenti e libri come sinfonie, quindi vedi l’ammirevole capacità di trascendere i propri limiti, di cambiare: il fantasma di ciò che lui non ha potuto essere ha dato corpo a ciò che è riuscito a essere.)

AZ) Il primo libro letto?

GM) Cipì, una storia truce da far leggere a un bambino in seconda elementare, con quel gufo, il Signore della notte, che divorava i passerotti.


AZ) I tuoi gusti letterari nell’adolescenza, nella giovinezza e ora nella maturità?

GM) Il primo libro che ho letto di mia iniziativa fu Il signore degli anelli, fu per me come per tantissimi altri bambini un periodo (durò un’intera estate) meraviglioso. In adolescenza leggevo molti gialli, polizieschi e fantascienza. Mi colpì molto Baol di Stefano Belli, con questa figura del Mago Baol che aiuta le persone e poi le persone scompaiono sempre, ma alla fine si accorge che non sono le persone a scomparire, è lui. Breve fase poetica, soprattutto Baudelaire e Montale. Dopo iniziò la scorpacciata di classici che è durata sostanzialmente fino a un paio di anni fa. Ultimamente mi sono un po’ arenato con la narrativa, ho quasi finito i classici che ho voglia di leggere, sulla contemporanea ho qualche difficoltà di adattamento, e allora mi sono dedicato alla trattatistica: teoria letteraria, filosofia, psichedelia, studi mitologici. A volte ho paura di star perdendo la capacità di apprezzare una storia. Forse è perché scrivo tanto (almeno secondo i miei standard).

Nel complesso, confesso tranquillamente di non possedere gusti letterari di alcun tipo, se per gusto letterario intendi autori, generi, stili preferiti. Mi piacciono tutti i libri che leggo (se un libro non mi piace lo abbandono subito). Credo che l’incapacità di apprezzare qualcosa di bello (certo, dev’essere bello), cioè una qualsiasi forma di parzialità estetica, sia il sintomo di una limitazione personale. Può essere un limite culturale, o un blocco inconscio, oppure un rifiuto etico, quello che vuoi, ma il risultato è che c’è un piacere lì che non sei in grado di cogliere. Non dovremmo parlare di gusti; sarebbe più utile, forse, parlare di disgusti letterari.

AZ) Prime esperienze di scrittura, confronto con i pari, riviste, blog.

GM) Ho già raccontato del primo racconto. Poi ci fu De Generazione, la rivista del liceo, e subito dopo Mostro, che durò dal 2000 al 2005. Ma arrancavo, riuscivo a scrivere non più di due o tre racconti l’anno perché passavo quasi tutto il mio tempo ai videogiochi. Per fortuna avevo così tanto tempo libero (l’università era una barzelletta) che potevo giocare al computer otto dieci ore al giorno ma anche stare con una fidanzata, fare le occupazioni e le manifestazioni, leggere Guerra e Pace, La recherche, Ulysses (avevo questa predilezione per i mattoni), fare Mostro e uscire la sera a fare casino. La mia vita era bellissima. Il confronto con “i pari”, a parte i quattro amici di Mostro, mi interessava davvero poco, perché non è che avessi niente da dire; né avevo niente da imparare da questi fantomatici pari perché i classici già erano fin troppo da assorbire, figuriamoci i contemporanei. (Fantomatici in ogni caso perché in quel momento Firenze da quel punto di vista era quasi un deserto, e internet ancora non era abbastanza diffusa da riempire il vuoto). Era un’epoca per me di raffinamento stilistico, cercavo di scrivere forbito. È finita abbastanza male.

AZ) Esperienza SIC. Quale è il suo retaggio?

GM) Una disciplina calvinista del lavoro e la consapevolezza che l’autore è una finzione necessaria.

AZ) L’autore in che misura è una finzione necessaria? E questo quali implicazioni comporta? È una finzione e quindi uno spettro come intende Stirner in riferimento all’uomo? Hai mai pensato al fatto che anche la responsabilità sia una finzione?

GM) Uno spettro sì, esattamente uno spettro. È una finzione necessaria alla finzione, ne è uno dei due punti focali. C’è questa doppia figura di confine, di mediazione tra testo e realtà, tra informazione e materia. Nel testo, è il narratore. Nella realtà, è l’autore. Mi è uscita la metafora dei punti focali, allora potrei dire che il lettore legge tra i due fuochi di un’ellisse che serve a una doppia ellissi: dall’esterno verso l’interno, l’autore si prende la responsabilità dell’esistenza e delle implicazioni pratiche della finzione, alleggerendo il lettore dal peso di dover decidere da sé di cosa si tratta; dall’interno verso l’esterno, il narratore opera una funzione simile ma nei confronti dei personaggi, ne delimita le possibilità, il mondo o i mondi di appartenenza. Insomma abbiamo due guardiani che reggono gli specchi e instaurano il gioco inesauribile. Quando viene a mancare il narratore, se ci fai caso, vengono a mancare pure i personaggi. Se invece viene a mancare l’autore (inteso certo sempre come figura, anche immaginaria, non come persona fisica con due gambe e due braccia – il mio riferimento è sempre Foucault), il testo rimane lettera morta, come se non significasse più nulla, come se fosse una macchia senz’anima.

L’implicazione sulla Scrittura Industriale Collettiva fu che laddove un autore-persona non c’era, dovevamo far sì che risultasse un autore in vitro, un autore-Frankenstein portato in vita, in fin dei conti, dallo stesso metodo di scrittura.

Un’implicazione più generale può essere che la testualità impersonale sognata da certo strutturalismo riporta sì a un grado di libertà, addirittura di spensieratezza, se vogliamo, ma al prezzo di far collassare realtà e fantasia l’una nell’altra, come per esempio sta capitando ora con il giornalismo e la propaganda su internet – e non è un bello spettacolo.

AZ) La scomponibilità dell’autore come soggetto unico, la riproducibilità di assi narrativi, caratterizzazione dei personaggi, topografie, tassonomie, psicologie, stile, ritmo, lessico et coetera, la scrittura a catena di montaggio, perché le perseguiste? Quali istanze portavate avanti, quali risposte cercavate? Cioè, secondo me è necessariamente presente una dimensione riduzionistica, e mi chiedo cosa ci sia di appetibile in questo. Un allievo di Martin Heidegger andò a lavorare come dirigente alla Ford, dopo qualche tempo scrisse al maestro che badava semplicemente alle catene di montaggio e aggiungeva una domanda: “ci insegnaste che l’uomo è il pastore dell’essere, ma a me pare di essere un pastore di macchine”. Perché applicare la catena di montaggio industriale – per definizione alienante e antiumanistica – alla scrittura e al romanzo che son invece ambiti umanistici per eccellenza?

GM) Col tempo ci siamo dati risposte diverse. Inizialmente era “perché no?” Poi, con In territorio nemico, abbiamo apprezzato le specificità della scrittura collettiva, quasi fosse un’arte diversa, non migliore o peggiore, rispetto alla scrittura individuale. C’è da dire in ogni caso che la catena di montaggio è solo un richiamo immaginifico, nessuno nella SIC era costretto, che so, a riscrivere centinaia di volte al giorno la stessa cosa. Adesso, che è passato qualche anno, darei una risposta aggiuntiva, che non toglie alle precedenti ma le integra: scomporre la scrittura in parti può aiutare a capire ciò che già non è individuale, personale, soggettivo nella sua operazione, non lo è mai stato e in futuro lo sarà ancor meno (penso alle reti neurali), e allora, se tolte tutte queste cose non rimane niente, vuol dire che l’opera progettata mancava in partenza dei crismi della soggettività. Insomma, una cartina tornasole per distinguere la narrativa di consumo dalla letteratura vera e propria. Un vero balzo in avanti su questo piano sarebbe pensabile solo quando uno scrittore avesse a disposizione degli scrittori pagati, ma alla luce del sole, non come ghost writers, (oppure, fantascientificamente, dei computer narranti), da usare come un direttore d’orchestra. Allora sì che avremmo una scrittura collettiva pienamente autoriale, anche in senso classico.

AZ) Cosa pensi di In territorio nemico?

GM) È un romanzo leggero e dal buon ritmo; inoltre dà soddisfazione perché vi si ammazzano numerosi fascisti e nazisti.

AZ) Quali sono i parenti più prossimi di Cometa? I tuoi testi feticcio-guida?

GM) Non ho questo tipo di rapporto coi libri. Uso tutto quello che leggo; se un libro non mi piace, come ho già detto, lo mollo subito. Alcuni parlando di Cometa hanno citato Houellebecq; mi sembra plausibile, ma non è stata una volontà di confronto diretto, quanto piuttosto un sovrapporsi di temi.

AZ) Bene, quali temi sono sovrapposti?

GM) Le politiche del desiderio. L’esaurimento del maschio bianco occidentale, borghese, eterosessuale, consumatore. Che Houellebecq “risolve” in senso reazionario, aggrappandosi masochisticamente a posizioni liberali (laicità, democrazia, non-violenza), che comunque ha sempre odiato, pur di avere qualche musulmano immaginario su cui scaricare un po’ di rancore. Per inciso, ho sempre detestato, in lui (pur ammirandone l’arte), il meschino attaccamento alla propria miserabile esistenza. Io ho cercato di andare in una direzione diversa, che non è la semplice riproposizione di valori progressisti (solidarietà, giustizia sociale, cultura e acculturazione, e così via), ormai sempre più involucri vuoti che risuonano per giustificare posizioni di privilegio, ma è una verifica dei desideri stessi, di ciò che piace o non piace, che porta inevitabilmente con sé una verifica del soggetto. Per dirla con un adagio di Raffaele: «L’unico modo per superare se stessi è fare qualcosa che ci fa schifo.»

AZ) Come hai costruito intreccio e personaggi? Parlaci della fase di gestazione.

GM) Un giorno lontano, sarà stato il 2010, passeggiavo in via del Proconsolo, sotto la Badia Fiorentina, e forse ispirato dalla spiritualità del luogo (mi era capitato di entrare alle sei del mattino dopo una notte brava e trovarvi frati stesi a pregare a faccia ingiù sul marmo) pensai che avrei potuto scrivere un romanzo a forma di croce: il braccio orizzontale sarebbe stato la mondanità, i sensi, gli oggetti, la materia; quello verticale il logos la spiritualità la spinta ascendente e trascendente. Due storie, due personaggi, due percorsi perpendicolari che si sarebbero toccati solo in un punto (si sarebbero amati? sfidati a duello?) per tornare a separarsi. Lo schema mi piacque perché era un simbolo che avrei potuto usare per unire due parti di me che sentivo incomunicanti e mi lasciavano incompleto. Il problema era che il “braccio verticale” era sottosviluppato. Quasi atrofizzato. Ero (e sono) un materialista convinto, mai degnato gli Dei di un pensiero, così quando m’interrogavo su questo benedetto “Spirito” non sapevo da che parte cominciare. Ci misi molti anni prima di farmi un barlume di idea (che potrei riassumere: lo spirito è illusione; ma l’illusione non è il male; l’essere è frammentato e comprensibile per immagini attraverso un politeismo soggettivo: ci sono migliaia di Dei e ognuno ne contiene alcuni). La parte di Raffaele è un risultato di questa ricerca, che fu abbastanza goffa.

AZ) L’editing in cosa è consistito?

GM) Seguendo le indicazioni di Biasella, ho tolto un capitolo noioso e ne ho riscritti due di sana pianta, più il finale, che ha richiesto tre stesure, l’ultima delle quali resa necessaria dalla morte (nel mondo reale, dico) di Stephen Hawking. E settantadue giri di limatura.

AZ) Con chi ti sei confrontato mentre lo scrivevi?

GM) In fase di gestazione il libro è stato letto solo da Silvia, mia moglie, che mi ha fatto capire dove sbagliavo e mi ha dato la forza di fare i cambiamenti strutturali di cui aveva bisogno (leggi: di ricominciarlo da capo un paio di volte). Poi i miei amici scrittori. Ma loro dopo.

AZ) Da un punto di vista della teoria dei generi, per quanto fenomenologica, come lo collocheresti?

GM) È un Doppelbildungsroman ma anche il prequel di un romanzo utopico.

AZ) In che misura si può affermare Cometa essere testo erotico e lisergico?

GM) Dal punto di vista dei contenuti, è abbastanza erotico anche abbastanza lisergico, ma più erotico che lisergico. Sempre che per “lisergico” tu intenda “pieno di allucinazioni”. Però sono per l’abolizione di “lisergico”, è ormai una parola troppo stretta per ciò che vorrebbe indicare. E invece di “erotico” direi “sessuale”.

AZ) Dove scrivi?

GM) In pubblico.

AZ) Scrivi sempre da sobrio?

GM) Al giorno d’oggi, sì.

AZ) A che ora?

GM) Dalle 22 alle 2. Sabato e domenica, tutto il giorno.

AZ) Ultimi 10 libri letti.

GM) M-L. Ryan; Narrative as Virtual Reality 2

Bruner; La fabbrica delle storie: Diritto, letteratura, vita

Cometa; Perché le storie ci aiutano a vivere: La letteratura necessaria

Rovelli; L’ordine del tempo

Benini; Neurobiologia del tempo

Baggott; Origins: The Scientific Story of Creation

Strindberg; L’arringa di un pazzo

Casadei; Biologia della letteratura: Corpo, stile, storia

Bernini, M. Caracciolo; Letteratura e scienze cognitive

Steiner; Grammars of Creation;

(Sono in un momento teoretico)

AZ) E quali sono i tuoi testi di riferimento teorico prevalente? Ad esempio, per me sono: Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente (Schopenhauer) Tipi psicologici (Jung), Genealogia della morale (Nietzsche), L’ordine giuridico medioevale (Grossi), Nera luce (Vallauri), Jus (Schiavone).

GM) Jung e Nietzsche fondamentali anche per me. Ancora più alla base, i primi tre classici del taoismo: Laozi, Zhuangzi, Liezi.

AZ) Autore italiano preferito.

GM) Calvino, di diverse spanne; ogni tanto ci provo con A. Manzoni ma poi non ci riesco mai a restare insieme.

AZ) Che pessimi gusti che hai… in Italia come al solito dilagano i cattivi maestri [sorrido]. E invece autore planetario preferito.

GM) Te l’ho detto che non ho gusti. I gusti sono quella cosa che i bambini viziati si raccontano per giustificarsi i propri limiti. In ogni caso su Manzoni scherzavo in parte: resta un modello di lingua, di un italiano in cui tutte le caselle poterono, per una volta, andare al posto giusto, che mantiene un perfetto equilibrio tra espressività e comunicatività, ma certo è da tempo inutilizzabile. Su Calvino invece non scherzo, è il più grande dei novecenteschi e se la catastrofe commerciale che gli è seguita ha preso esempio da lui, è semplicemente perché lui e Pasolini furono gli unici da cui fosse possibile prendere esempio. Poi certo, ho i miei santini come tutti: Centuria di Manganelli, Dialoghi con Leucò di Pavese, Sciascia… Niente di esoterico.

Planetari: i miei quattro pilastri sono Sterne, Flaubert, Joyce e Kafka. Intorno, i luogotenenti Mann, Proust, Dostoevskij e Borges. Alle spalle, Nabokov, Dürrenmatt, Manganelli e Bernhard che sghignazzano. Tra i contemporanei: chi altri se non Wallace e Bolaño? (Ma entrambi con riserva, Wallace perché terminale, Bolaño perché precursore di qualcosa che non è ancora stato scritto, che forse qualcuno sta scrivendo in questo esatto istante, che lo supererà e darà senso anche a lui.)

AZ) Hai mai fatto corsi di scrittura creativa?

GM) Mai.

AZ) Cosa ne pensi?

GM) Tutti quelli che scrivono (fuorché Rimbaud) devono passare attraverso un apprendistato lungo e faticoso. Un corso di scrittura creativa può essere una scorciatoia quando ancora non ci si capisce nulla. Se incontri un insegnante buono, che non vuol dire solo bravo, ma anche e soprattutto adatto per te, ti può far risparmiare qualche mese, un paio d’anni di sperimentazioni. Ma se non è adatto? Sarà uno spreco di tempo, o peggio potrebbe rovinarti. Puoi rischiare di lasciarti condizionare così, da una persona a caso? No, non ho fatto un corso e non lo consiglierei. Meglio prendersi il tempo di valutare per sé i maestri e i modelli.

AZ) Cosa pensi dello sviluppo sostenibile e cosa della decrescita felice?

GM) Se la crescita è «drogata», non puoi sperare di disintossicarla predicando l’astensione. Tutte quelle grasse risorse a portata di mano, e «no non puoi usarle, devi decrescere»? Non può funzionare. Non che lo sviluppo tecnologico sia una strada semplice, tutt’altro. Ma almeno, è concepibile.

AZ) Sarà mia premura ricordarti quale epocale tracollo rovinoso ebbe la precedente, fortissima, economia – e quindi crescita – drogata: l’Impero romano. La tecnologia renderà il mondo un luogo più salubre?

GM) Lo ha già fatto, ma purtroppo “salubre” non è sinonimo di “sano”.

AZ) Citavi la Montagna incantata in apertura. Dalle tue risposte mi pare di capire che tu tifi per Settembrini contro Naphta – un illuminista, un Corrado Augias. Ascolta: Cosa ti aspetti di a oggi insperato/inimmaginato dai pc, nel senso di IA?

GM) Settembrini e Naphta, li ammiro entrambi, ma il mio tifo è sempre andato tutto a Peeprkorn che non finiva le frasi. Le IA: Immagino degli Assistenti Personali Virtuali, con una personalità modellata sulla nostra, che interagiscono tra di loro, a nostro nome ma autonomamente, sui social, restituendoci un po’ di solitudine.

AZ) L’ecologia che ruolo gioca nella tua vita?

GM) A volte sogno onde alte chilometri che inghiottono la Pianura Padana.

AZ) Animalismo? Antispecismo? Veganesimo? Vegetarianesimo?

GM) Da parte di un redattore di Crapula questa domanda suona sinistra. Cosa dovrei rispondere? Che preferirei nutrirmi esclusivamente di carne umana? No, non cedo al ricatto tassonomico-tassidermico: rivendico la portata liberatoria del non avere la più pallida idea di che cosa cazzo ci si sta ficcando in bocca, come i neonati. (Ho appena mentito: in realtà da qualche tempo ho seriamente limitato la mia dieta di quadrupedi, perché mi fanno pena. Sottolineo pena. Non pietà!)

AZ) I redattori di Crapula son genti multiformi, poliedriche – versatili! Raccontaci qualcosa del tuo romanzo.

GM) Mi dispiace è tardi, devo andare.

AZ) “Forse un uomo non sarò”

 

 

Andrea Zandomeneghi

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