Le stanze dell’addio, Yari Selvetella
(Bompiani, 2018)
Selvetella ha scelto un argomento difficile, bisogna dargliene atto. Quando si approccia a tematiche delicate come il cancro, la morte, il lutto e l’amore, bisogna anche mettere in conto che d’amore s’è già parlato tanto e se parlerà ancora. Le stanze dell’addio si aggiunge al novero dei romanzi che parlano d’amore, seppur in una forma peculiare.
Un uomo perde la moglie e comincia a cercarla nelle loro “stanze”, luoghi che hanno segnato la loro storia d’amore, dai momenti lieti ai momenti di tensione, dalla salute alla malattia. Quella che Selvetella racconta è una storia d’amore difficile, travagliata, ma – come lo stesso autore ci ricorda in più punti del romanzo – proprio per questo autentica: non esiste un amore vero che sia facile, che scorra sereno.
Selvetella adotta una strategia letteraria che ad alcuni forse può risultare ostica: l’esasperazione del concetto. Il romanzo si concentra su poche tematiche, le ripete e le approfondisce in ogni aspetto, seppur di speculativo rimane poco. Ciò che accade, arrivati a metà circa del racconto, è di avere la sensazione di aver già letto quello che si sta leggendo. Forse però questo romanzo non ha bisogno di una lettura ortodossa, ma di un lettore sensibile.
Ciò che ho apprezzato è la carica di speranza che – in fondo – questo romanzo ci regala. Selvetella mostra come una persona può crollare in un baratro e come da esso possa riemergere, anche – e soprattutto – facendosi forza allo scopo di aiutare qualcuno perso nel buio quanto lui.
L’amore così assume un senso molto ampio: un amore che non muore con la morte fisica, ma rinasce ed è pronto a concedersi di nuovo a qualcuno, nella speranza di poter ancora donare tutto sé stesso. È anche un amore fraterno, simbolo di quel tipo di fratellanza peculiare che nasce solo tra chi soffre degli stessi dolori.
Ho sempre letto i romanzi facendo una distinzione precisa: quelli necessari alla Letteratura e quelli non necessari. Mi spiego: ho sempre letto con l’ottica di comprendere se il romanzo che avevo tra le mani sarebbe – un giorno – rimasto nella memoria storica della letteratura, se la gente se ne sarebbe ricordata di qui a cento anni. Con questo romanzo la distinzione non funziona. Se c’è una cosa che ho compreso da questa lettura è che, sì, ci sono libri universalmente necessari e altri meno. Ma ci sono anche libri necessari a chi li scrive. Le stanze dell’addio rappresenta questa categoria.
Clelia Attanasio
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