Berta Isla, Javier Marías
(Einaudi, 2018 – Trad. M. Nicola)
È uscito a maggio per Einaudi l’ultimo romanzo di Javier Marías, Berta Isla, nella traduzione di Maria Nicola. Una lezione di vita che fa quello che deve fare la letteratura: porre delle domande. Man mano che procediamo nella lettura sempre più interrogativi ci affollano la mente e ci sembra di non sapere più chi siamo e chi sono gli altri a noi vicini. Un vero e proprio percorso interiore, in cui a guidarci sono soprattutto Eliot e Shakespeare, e che paradossalmente ci lascia svuotati e allo stesso tempo più ricchi.
Tomás Nevinson e Berta Isla si conoscono sui banchi di scuola a Madrid e, come usava fino a poco tempo fa, qualche anno dopo si sposano, uniti da un amore determinato e convinti che ad attenderli ci sia una vita insieme tutto sommato banale, una casa e due figli. Ma Tomás, che è per metà inglese, va a frequentare l’università a Oxford e lì intesse una relazione con una ragazza. Per solitudine, per noia o perché l’inverno inglese è lungo e la gioventù pulsa nelle vene, ma senza mai dimenticarsi della sua amata Berta. Da un’avventura prematrimoniale senza tanta importanza, scaturisce una serie di eventi che costringerà Tomás ad arruolarsi nei servizi segreti britannici. Inizia così una vita a metà, tra la Spagna e l’Inghilterra, con Berta e senza Berta. Un lavoro che lo tiene lontano da casa per lunghi periodi e una moglie all’oscuro di tutto fin quando possibile, poi a conoscenza del minimo indispensabile.
Marías ci racconta di un ingranaggio che si rompe. Una sera andiamo a dormire convinti di conoscere il giorno che ci aspetta, ma basta poco, uno scherzo del destino, un imprevisto, una distrazione e il corso degli eventi può cambiare per sempre. È la vita che si spezza. Una falla che si squarcia. Così Tomás perde la propria identità, conduce una vita che non è vita, senza progettualità, senza speranze, senza inversioni di rotta perché tutto è già stato prescritto e segue un disegno ben preciso che altri hanno tracciato per lui. Semplice pedina in un gioco più grande di lui. Quanto può essere monotona un’esistenza senza sorprese!
Tomás combatte per la difesa del Regno contro il nemico, combatte per la giustizia. Ma Marías sembra chiederci con un sussurro fuori campo: Chi è il nemico? Chi sono i buoni e chi sono i cattivi? E in guerra ci sono dei limiti morali, o il fine giustifica i mezzi? Le vicende di Tomàs in Inghilterra vengono solo lasciate intuire, il suo coinvolgimento prima contro l’IRA poi nella Guerra delle Falkland viene dedotto ma mai confermato, la sua altra vita non esiste come spiega Tomàs stesso alla moglie, non ci sono prove, non ci sono tracce, tanto che spesso chi fa quel lavoro ne esce morto o squilibrato. Ma come dice il proverbio, “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, e quello che non viene raccontato Berta non può saperlo, proteggendosi così dal dolore. A volte, meglio non sapere.
Berta decide di rimanere sempre e comunque al fianco del marito, accetta la solitudine e il divieto di fare domande, accetta di arrovellarsi in silenzio. Penelope dei giorni nostri, incarna il coraggio, o la condanna, prettamente femminili, di saper aspettare. Marías descrive la speranza che si insinua dentro come un tarlo, perché basta aggrapparsi a un ricordo, a una frase per continuare a sperare, in un sentimento che sembra aiuti ad andare avanti, a vivere, e invece spesso si rivela letale. La speranza che va a braccetto con l’illusione, con la paura di guardare in faccia la realtà, di farci i conti e ricostruirsi. Perché è questa l’unica cosa che rimane da fare una volta crollate le certezze e venuti meno gli affetti, reinventarsi, mettere in dubbio tutto quello in cui abbiamo creduto fino a quel momento, scoprire un nuovo lato di noi stessi e rimettersi in gioco. Un gioco diverso, di cui all’improvviso non conosciamo più le regole.
Il testo è ricco di riferimenti alla letteratura anglosassone, di cui Marías è stato insegnante e traduttore, e non poteva mancare il paragone con Mr. Jeckyll e Mr. Hyde visto che il tema centrale del romanzo, da cui si dipanano tutti gli altri, è quello del doppio. A partire dall’ambiguità della vita di Tomás, sempre costretto a fingere, in missione e a casa. Come lo ammonisce il suo maestro, il rischio più grave per chi fa quel mestiere non è tanto essere scoperti, piuttosto di calarsi troppo nella parte e non distinguere più realtà e finzione. L’essere umano non è fatto per una doppia vita e prima o poi finisce per identificarsi in un ruolo.
All’altro capo del matrimonio, la moglie. Anche lei con il suo segretuccio, meno eclatante, certo, ma pur sempre taciuto. Allora sorge spontaneo domandarsi fino a che punto conosciamo davvero la persona con cui attraversiamo l’oscurità della notte, con cui abbiamo progettato il futuro, fatto dei figli? E fino a che punto siamo disposti ad ascoltare l’altro, scrutarlo negli occhi, interrogarlo con il rischio di trovare risposte inaspettate, sentire il morso della paura e le fondamenta che tremano sotto i piedi.
O forse preferiamo distogliere lo sguardo, ripeterci parole rassicuranti, convincersi che tutto sta andando come avevamo previsto, che non ci sono ombre scure né fantasmi. Perché la verità, grande o piccola che sia, fa paura. E le storie che ci raccontiamo permettono di dormire sonni tranquilli. Non c’è bisogno di sposare un agente segreto per ritrovarsi nelle pagine di Marías, chi è che non ha preferito, almeno una volta nella vita, voltarsi dall’altra parte? Per la fatica di ascoltare, la paura di sapere. L’egoismo intrinseco in ognuno di noi ci trattiene dal prestare attenzione agli altri, tendiamo ad allontanare i pensieri che ci angosciano, le preoccupazioni, tutto quello che può minare la nostra serenità. E quando decidiamo di aprire gli occhi è irrimediabilmente troppo tardi.
Marìas ha il dono raro di scavare nell’animo umano, alterna punti di vista e voci narranti, tiene il lettore in uno stato di attesa spasmodica e regala un finale imprevedibile. Racconta l’umanità nei suoi aspetti più segreti e impercettibili, ogni suo personaggio ci rivela qualcosa di noi, con delle paure, delle debolezze, dei gesti che credevamo solo nostri e invece scopriamo comuni.
Caterina Marchioro