L’amore è potere, o almeno gli somiglia molto, A. Igoni Barrett
(66thand2nd, 2018, traduzione di M. Martino)
L’amore è potere, o almeno gli somiglia molto è una raccolta di racconti fresca di stampa, ambientata per lo più nella cittadina immaginaria di Poteko e caratterizzata da un odore forte, di quello che si respira solo nei Paesi in cui il sole picchia forte, in cui la gente conosce bene i vicini di casa e in cui i legami fra il potere e l’amore sono effettivamente strettissimi, come anticipa già il titolo.
Le nove storie che si susseguono ce ne raccontano degli spicchi strani, insoliti quantomeno agli occhi di un pubblico europeo, poco abituato a sentire parlare della Nigeria quando c’è di mezzo la letteratura contemporanea, che invece si dimostra interessante e attenta ai cambiamenti epocali e del singolo, in un solco nel quale le tradizioni delle vecchie generazioni cozzano con quelle più giovani e tecnologiche. Gli equilibri familiari e sociali narrati sembrano lì per lì lontani da quelli che regolano la vita della “post-moderna borghesia” italiana, mentre il modo di comunicare e di stare al mondo sembra arrivare come l’eco di una leggenda.
Eppure, basta poco per entrare in empatia con i personaggi che scorrono nello schermo immaginario di questo grande cinema umano. Sotto i loro abiti e i loro dialoghi quotidiani si nascondono fantasmi che assomigliano ai nostri, sentimenti che lasciano in bocca lo stesso sapore, tragedie intime o collettive che riconosciamo. Ed ecco che la risata di una bambina ci tintinna cristallina in testa, come la voce tonante di un militare in divisa e il gemito di una ragazza aggrovigliata fra le lenzuola in compagnia del cugino.
Realtà grandi e piccole si mescolano e si confondono, creando un puzzle in cui ciascuno è un microcosmo da decifrare a sé e in cui tutti sembrano condividere le stesse parole-chiave, le stesse paure, gli stessi scherzi del destino. Ci sono coppie che si amano solo dopo lunghi anni di matrimonio, giovani che invece si baciano subito, ragazzini che non criticano chi ha l’alitosi e conoscenti che amano bere birra e ascoltare Tupac, anche se poi non corrispondono fino in fondo a chi dicono di essere.
I racconti hanno dunque come filo conduttore l’amore, osservato da prospettive a volte strazianti e a volte crudeli, a volte tenere e a volta soffocanti, in manifestazioni che sono figlie del luogo in cui si verificano, ma che al contempo risultano universale per il modo in cui scuotono gli esseri umani, trasformandoli nella versione migliore o peggiore di sé stessi.
E intanto, mentre un adolescente impara a fregare gli americani su internet e una vedova rivolge dopo decenni la parola alla dirimpettaia scoprendo che entrambe possono aiutarsi a vicenda l’indomani durante un’operazione in ospedale, ci sembra che una porta si schiuda per noi su una nuova dimensione tridimensionale. Inizialmente, nel varcare la soglia, la scambiamo per la Nigeria tout court, credendola densa e calda come le parole di chi scrive, carnosa e ritmica come il suo stile, perfino nauseante a tratti per la forza viscerale con cui si insinua nella mente del lettore. Poi, invece, capiamo che si tratta di qualcos’altro.
Ci rendiamo conto che stiamo scoprendo dei tasselli in più di un quadro ben più ampio, quello della natura umana e delle sue contraddizioni. Quello rispetto al quale il colore della pelle, la religione, il numero di figli a carico, l’età e il sesso non contano, se non secondo le convenzioni che attribuiamo noi a ciascuna caratteristica. Gli elementi, insomma, li conosciamo tutti: semplicemente li vediamo riorganizzati secondo una logica diversa, che ci turba e ci incanta, che ci commuove e ci indigna, man mano che entriamo nelle case di persone da una parte estranee al nostro background, dall’altra tenute insieme dai medesimi legami di carne e di ossa.
Quando usciamo da ognuna delle loro case, siamo un po’ più ricchi di prima, un po’ più vulnerabili, un po’ più innamorati. I sentimenti che ci sono fra le pagine e fra le stanze, infatti, sono contagiosi e pregnanti, ci fanno trattenere il fiato e riflettere, e ci lasciano con lo stomaco e il cuore in subbuglio, come se fossimo stati invitati realmente da ciascuno di loro e avessimo assistito al dipanarsi inatteso e bizzarro della loro esistenza, che è sempre almeno un pizzico il riflesso della nostra.
In una frase, si tratta dunque di un’opera matura e intrisa di concretezza, ma dalla quale emergono nostalgie caduche e sensazioni acutissime, che la distanza geografica fra la cultura di partenza e quella di arrivo del testo non fa che enfatizzare e impreziosire.
(Eva Luna Mascolino)
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