«Con un’ansia che assomigliava all’angoscia, raccolsi attorno a me gli strumenti atti a infondere la scintilla di vita nell’essere inanimato che giaceva ai miei piedi. Era già l’una del mattino; la pioggia batteva sinistra sui vetri e la candela avrebbe presto dato i suoi ultimi guizzi, quando, alla luce che stava per spegnersi, vidi aprirsi i foschi occhi gialli della creatura; un ansito e un moto convulso le agitarono le membra.»*
Con queste parole il dott. Victor Frankenstein descrive al Capitano Walton il momento in cui la sua creatura ha preso vita. L’idea per l’esperimento era venuta a Victor, per sua ammissione, ascoltando teorie sull’elettricità e il galvanismo. Le stesse teorie che avevano ispirato alla diciottenne Mary Shelley il soggetto di quello che sarebbe diventato uno dei classici della letteratura, destinato a cambiare l’immaginario letterario e culturale del gotico e dell’orrore. Proprio queste teorie, che portano il nome del bolognese Luigi Galvani, rappresentano il ponte tra l’Italia e Frankenstein.
Quello che qui racconterò, tuttavia, non ha a che fare semplicemente con teorie scientifiche, e non è estraneo al macabro.

Galvani (1737-1798) fu insigne fisico presso l’Università di Bologna, pioniere nell’utilizzo dell’elettricità nella scienza medica e negli studi anatomici, da cui il termine d’utilizzo tuttora comune, galvanizzare, col significato di eccitare e trasmettere energia. I suoi studi contribuirono «all’invenzione di apparecchi rivoluzionari come la pila di Alessandro Volta» e «l’impatto delle sue ricerche fu paragonato ai mutamenti prodotti dalla Rivoluzione francese in campo politico, e la sua opera è tuttora considerata una tappa rilevante nel processo che ha portato all’emergere delle moderne neuroscienze.»**
Come Galvani, il nipote Giovanni Aldini (1762-1834), anche lui fisico bolognese, si occupò del medesimo ambito di studi. Tuttavia Aldini, a differenza dello zio, era figura più eccentrica, e probabilmente convinto, al pari di Victor Frankenstein, che l’elettricità poteva davvero dare vita alla massa inanimata. Dapprima i suoi esperimenti si concentrarono su corpi di animali, i quali, sottoposti alla scossa elettrica, subivano spasmi e contrazioni muscolari. Secondo Aldini, questi effetti stavano a rappresentare in maniera inequivocabile un breve e momentaneo ritorno della vita.
Inseguendo la sua intuizione, passò allora a svolgere esperimenti su corpi umani. Nelle carceri si procurava i cadaveri dei condannati a morte; alle teste mozzate dalla ghigliottina collegava elettrodi ad alto voltaggio, e queste aprivano gli occhi, muovevano le labbra, assumevano espressioni spaventose come di persona che tenti di lasciare la dimensione della morte per tornare nel mondo dei vivi. Egli non aveva più dubbi: l’elettricità avrebbe permesso la resurrezione. Doveva solo trovare un modo per riuscirci.

Per avere facilità di accesso a cadaveri integri, nel 1802 Giovanni Aldini si trasferì a Londra, con l’obiettivo – parafrasando Mary Shelley – di spezzare le barriere ideali della vita e della morte per riversare sul mondo oscuro un torrente di luce. *** In Inghilterra, infatti, era praticata la condanna a morte per impiccagione e non per decapitazione. Questo scienziato bolognese, che condivideva la stessa ossessione di Victor Frankenstein, prese qui a svolgere esperimenti che non si limitavano più ai teatri anatomici: erano diventati orridi e inquietanti spettacoli svolti in pubblico, a cui la gente si precipitava per poter ammirare i morti che riprendono vita – come diceva la voce che presto si era diffusa.
I cadaveri erano posati su un vecchio tavolo rancido, coperti solo con alcuni stracci sulle nudità. Agli arti, al busto e alla testa erano collegate delle pile elettriche, e al momento della scossa, i corpi si muovevano, il busto si torceva, le braccia s’elevavano, il volto pareva riprendere vita. Ai londinesi che assistevano allo spettacolo, la scena appariva come una drammatica, dannata lotta di un’anima per riprendere possesso del corpo dal quale era stata espulsa. Era una battaglia tra la vita e la morte, a ruoli invertiti. In molti, probabilmente, si convincevano che le scoperte di quell’italiano avrebbero dato all’uomo l’eternità, come Prometeo, a suo tempo, aveva dato il fuoco. Altri, più semplicemente, credevano che si trattasse del trucco di un ciarlatano.
Si diffuse finanche la notizia che Aldini, in un’occasione, pur di ricevere in tempi utili un cadavere sul quale sperimentare nuove soluzioni, fosse giunto a corrompere i giudici perché condannassero un tale George Forrest, accusato – ma, si ritiene, ingiustamente – di aver assassinato la moglie e la figlioletta. Pare infatti che questi avesse colpito il fisico bolognese per via della sua corporatura possente, e quindi era ritenuto sufficientemente in forze per sostenere la fatica di superare la morte e riacquistare la vita. Si dice che in questa occasione molte persone scapparono terrorizzate e qualcuno persino morì d’infarto a vedere la mostruosità del cadavere muoversi e divincolarsi da solo, i suoi polmoni contrarsi e il ventre distendersi per la respirazione.

In questi anni, Mary Shelley era solo una bambina e non si hanno prove che abbia mai assistito a uno di questi spettacoli; è ragionevole supporre che anzi non sia mai avvenuto. Tuttavia, grazie proprio agli stravaganti e orrendi esperimenti di Giovanni Aldini a Londra, il galvanismo si diffuse con maggior risonanza nel Regno Unito, uscendo dalle cerchie accademiche per trovare spazio nell’opinione pubblica. Quelle galvaniche non erano soltanto teorie scientifiche, bensì anche filosofiche. Lo stesso Aldini era laureato, oltre che in fisica, anche in filosofia. L’assunto di base era infatti l’esistenza di uno spirito vitale in ogni essere, quell’anima che sin da Platone e Aristotele aveva mosso le riflessioni dell’umanità. Altresì il tema si muoveva anche in quella tradizione del pensiero che si interrogava sull’origine della creazione. Si può creare qualcosa dal nulla? si chiedeva infatti Mary Shelley.
E su questa scia, dopo Bologna e Londra, concludiamo il nostro viaggio a Ginevra. Nel 1814, Mary Shelley – all’epoca ancora Mary Wallstonecraft Godwin – ha diciassette anni. Ha lasciato la sua casa paterna, incinta, per fuggire col suo amante, il poeta Percy Shelley, cinque anni più grande di lei, prima in Francia, poi in Svizzera. Proprio qui, una sera del 1816, Mary, Percy e un gruppo di amici, tra cui Lord Byron, si intrattengono a parlare di teorie scientifiche e filosofiche; di Darwin e di Galvani; dell’elettricità intrinseca a ogni animale; della possibilità, quindi, di riportare la vita in un corpo morto. La conversazione è lunga, la notte fuori è agitata, buia, fantasmatica. A squarciare la quiete del loro conversare sommesso sono i rintocchi improvvisi e spaventevoli di una pendola, che indica la mezzanotte.
Gli amici si separano, Mary va a dormire. Si corica a letto ma non riesce a rilassarsi. Dietro le finestre di Villa Diodati, la dimora di Byron presso cui sono ospiti, imperversa la bufera sul grande lago. Lei ha abbandonato la sua casa e la sua patria, ha avuto una figlia che le è morta subito dopo il parto, ma resta pur sempre una ragazza di diciotto anni, rimasta suggestionata dall’atmosfera e dai discorsi ascoltati quella sera. Le restano impressi, le rendono inquieto e difficile l’addormentarsi, e quando finalmente il sonno arriva, con esso arriva anche l’incubo. Quello che vede nell’incubo è ciò che a breve descriverà nel suo primo – e per sempre più noto – romanzo. Al risveglio dà l’annuncio a Percy, Byron e agli altri: ha finalmente la storia.
C’era una scommessa in sospeso tra tutti i membri della cerchia, risalente a giorni prima: ognuno di loro avrebbe scritto una storia dell’orrore. Byron e Shelley, più grandi ed esperti nelle lettere, sono certamente i favoriti. Tuttavia quella mattina, dopo la notte di incubi e tempesta, la giovane Mary promette: ha l’idea per la storia e la scriverà, dall’inizio alla fine. Subito si dimostra tenace e determinata, e sarà proprio lei, la ‘ragazzina’, a vincere la scommessa. Due anni dopo, Frankenstein viene dato alle stampe. E’ il 1818. Duecento anni fa.
Giuseppe Rizzi
Note:
* Frankenstein, M.Shelley, p.62 dell’edizione Einaudi Tascabili (trad. di L. Lamberti)
** Galvani, Luigi, in Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Scienze (2013), Treccani
*** Frankenstein, M. Shelley, p.58, op. cit.
Bibliografia:
N. Fusini, Introduzione a Frankenstein, op. cit.
S. Graziani, Giovanni Aldini tra macabro e realtà, in Jourdelò n. 13, Bologna, nov. 2009
A. Lo Monaco, Giovanni Aldini: lo Scienziato italiano che ispirò il personaggio di Frankenstein, in Vanilla Magazine, 19 dicembre 2017
M. Poli, Giovanni Aldini, scienziato oscuro, in Il Resto del Carlino, 13 gennaio 2014
Immagine in anteprima:
Boris Karloff nel ruolo della Creatura nel film del 1931
Da almeno un paio di secoli, insomma, la Scienza influenza parecchio l’Arte: in principio fu Frankenstein, ora invece abbiamo tutto il genere distopico.
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Complimenti! Questa di Giovanni Aldini non la sapevo; mentre la storia del “Geneva quartet” è abbastanza nota. Quella sera del giugno 1816, con Mary, Shelley, e Lord Byron c’era anche un certo John Polidori – medico personale del lord – il quale per la “gara” sui racconti horror, propose “The Vampyre” (cfr. https://www.dailybest.it/society/giovane-polidori-vampiro/) che fu pubblicato nell’aprile del 1819 sulla Monthly Magazine. Per un errore, il racconto fu attribuito a Byron che, invece per l’occasione scrisse “The Burial”. Polidori, letterariamente, rimase sempre in ombra (e non è difficile capire di chi). Ma con i letterati del periodo ebbe sempre a che fare: fu infatti cognato di Gabriele Rossetti, papà di Dante Grabriel Rossetti. In disparte, col quartetto c’era anche Claire Clairmont, guarda un po’, amante del lord, la quale, non ricordo più dove lo lessi, era la traduttrice ufficiale dei fratelli Grimm e a conoscenza di tante leggente tedesche e svizzere dalle quali potrebbe essere stata influenzata anche la sorellastra Mary. Il dott. Polidori morì nel ’21, si presume suicida.
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Molto interessante. Grazie mille per il contributo, Stefano.
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