Come belve feroci, Giuseppe Alemanno
(Las Vegas Edizioni, 2018)
La famiglia Sarmenta viene colpita da una violenta tragedia: Paolo e Enza Sarmenta vengono brutalmente squartati da Costantino Ròchira. Della famiglia Sarmenta si salvano il figlio Massimo, gli zii e il cugino Salvo.
Comincia così, senza giri di parole né fronzoli, il romanzo della fuga e della vendetta dei superstiti Sarmenta contro Ròchira. Un romanzo ambientato nella Puglia più profonda, ma che potrebbe tranquillamente essere l’America spietata dei romanzi di McCarthy, considerando le tinte pulp e noir che prende questa storia così spietata e grottesca, che ricorda per certi versi il film “Non è un Paese per vecchi”.
Ciò che stupisce del romanzo è, senza dubbio, la caratterizzazione dei personaggi più piccoli, almeno anagraficamente: Massimo (detto Mattanza) e suo cugino Salvo. Il primo è una macchina da guerra, tremendo e terrificante, con una violenza latente pronta ad esplodere da un momento all’altro. Il secondo, invece, possiede un’apparente tranquillità e mansuetudine che lo rende, forse, ancora più inquietante, soprattutto se a ciò gli si accosta l’intelligenza. Scaltro e saggio, partorisce un piano spietato. I due, insieme, creano una perfetta macchina da vendetta: l’uno compensa i tratti mancanti dell’altro. La mano e il cervello mettono in atto una vendetta lunga, ragionata e senza perdono.
Il linguaggio ci restituisce perfettamente l’idea delle campagne pugliesi, pur senza eccedere nell’uso del dialetto: è qualche termine, qualche troncatura verso la fine delle parole, ma soprattutto il ritmo sincopato che rendono chiaro il paesaggio rurale e “familiare” nel quale il romanzo si svolge. Quando dico familiare faccio riferimento non solo a un senso di familiarità, ma anche all’immaginario tipico delle famiglie del sud, un sentimento di comunanza molto forte tra i vari membri di una famiglia, che dà priorità al sangue prima che a tutto il resto. Forse è difficile immaginare che la lingua da sola possa far trasparire tutto questo, e invece è mia intima convinzione che il linguaggio, come lo si parla e come viene utilizzato, sia diretta conseguenza di tanti fattori sociali e culturali, proprio come quelli di cui ho appena fatto menzione.
Il tempo in questo romanzo è sincopato, eppure l’arco cronologico all’interno del quale si snodano gli eventi è molto ampio. La forbice temporale pare allargarsi sempre di più: se nella prima parte la narrazione prendeva lo spazio di pochi giorni, successivamente si arriva addirittura ad attraversare anni interi. È come se, in questo romanzo, il tempo e il ritmo prendessero le mosse dallo stato emotivo dei protagonisti: inizialmente Ròchira, che commette il crimine, ha un tempo interiore concitato e aggressivo, poi lo zio Sarmenta, più meditabondo e al contempo subdolo, ha un tempo interiore più dilatato, forse anche perché sta fuggendo e ha bisogno di mettere chilometri tra la sua famiglia e Ròchira. Infine, il tempo lo sancisce solo ed esclusivamente Salvo che, insieme allo spaventoso Mattanza, ha un tempo interiore molto più tranquillo, lucido, quasi chirurgico.
Questo romanzo, si capisce, ha come fulcro la vendetta, rappresentata come ultimo spiraglio di fede per i protagonisti della storia. Assieme a ciò, c’è spazio anche per comprendere che i soldi, la corruzione, la ‘ndrangheta e la povertà disperata sono il motore immobile dal quale prendono le mosse tutti i pensieri peggiori di questi esseri umani. Dall’altro lato, però, è possibile che a chi legge possa venire in mente di giustificare i due veri protagonisti del romanzo: Massimo e Salvo. Il romanzo porta per mano il lettore verso l’accettazione della vendetta come sentimento universale, e lo fa attraverso scene così crude da sembrare, a volte, quasi irrealistiche. Quando il lettore comprende che la vendetta accomuna tutti, è quasi impossibile non guardare ai due ragazzi con un sentimento di quasi-indulgenza, anche se vorremmo non provarlo.
Clelia Attanasio