Un volumetto del critico letterario e scrittore Alberto Asor Rosa, edito da Einaudi, tra le cui pagine sono raccolti alcuni articoli sulla situazione italiana dalla rivoluzione sessantottina all’esaurirsi degli anni Settanta, esibisce in copertina il titolo Le due società. I contributi hanno per argomento l’ascesa di applicazioni prima d’allora inedite della lotta di classe, le quali sembravano dissolvere e soprapporsi a dialettiche più che ancestrali. Eppure, ovunque due voci si incontrano, in dialogo pacifico o in asperità linguistica, lo spettro della dialettica sopravvive almeno nella figura dell’arbitro. Sia d’esempio l’avvenimento di Torre Maura.
Estrapolando le sole informazioni più immediate dall’oceano di narrazioni che quasi annientano l’evento sotto l’ordine del discorso: un quindicenne interviene durante un’intervista a un membro di CasaPound per esporre delle ragioni dissimili rispetto a quelle definite da quest’ultimo unanimi. Il grumo di interpretazioni estetiche è eterogeneo: un quotidiano ne sostiene l’eroismo civile, il sindaco di Roma utilizza il filmato per dimostrare il proprio dissenso, e così via.
La scrittrice Elena Stancanelli produce a tal proposito un tweet che permette all’opinione pubblica di spostare il soggetto dell’attenzione: «che uno a quell’età non sappia parlare italiano non vi fa impressione?». Il profluvio di articoli dimostra la tesi della Scuola di Francoforte per cui l’industria culturale prolifica dentro il proprio stesso campo.
Ancora un paio di micro-eventi. Lo scrittore Christian Raimo, invitato al talk-show “Dalla vostra parte” esibisce prima alcuni cartelli provocatori (“NON C’AVETE UN ALTRO SERVIZIO SUI NEGRI CATTIVI?”, dice uno) e dunque, al giornalista Alessandro Sallusti che brandisce contro l’immigrazione l’arma della statistica, della quale chiunque può servirsi per qualsiasi proposito, risponde sollevandosi: letteralmente, si solleva e abbandona il collegamento.
Edoardo Albinati fantastica invece a proposito della morte di un bambino, a bordo di una delle imbarcazioni ricolme di richiedenti asilo lasciate a fluttuare sul Mediterraneo, perché l’opinione pubblica possa essere disincantata dal proprio torpore: come interpretare queste anomalie nel sistema discorsivo degli intellettuali?
Di questo è che si occupa Elias Canetti, Premio Nobel nel 1960, nel primo (e unico) romanzo a sua firma: Auto da fè.
L’opera cova lo spettro dell’incendio al Palazzo di Giustizia di Vienna del 15 luglio 1927 compiuto da un gruppo di operai dopo una sentenza considerata ingiusta. «Quando appiccarono il fuoco», scrive Canetti nel saggio in appendice all’edizione italiana, «il borgomastro Seitz, su un automezzo dei pompieri, cercò di tagliar loro la strada alzando la mano destra. Fu un gesto assolutamente inefficace: il Palazzo di Giustizia andò in fiamme».
Nulla riuscì contro la furia di una massa che priva di intermediari aveva marciato e dunque agito per la restaurazione di un valore considerato “più alto” di quello esercitato tra le mura delle istituzioni diplomatiche. «Da allora so con assoluta precisione quel che accadde durante l’assalto della Bastiglia», procede Canetti. Il metodo è quello che innerverà il suo primo (e unico) saggio sulle relazioni tra Massa e potere: «è indubbia una analogia, e forse più di una pura e semplice analogia», si legge in un brano.
I tre titoli che hanno attraversato l’opera di Canetti ne dicono la relazione con l’intervento dalla massa sull’ordine politico.
“Kant prende fuoco”, il primo, in quanto la figura principale dell’opera vantava l’impegnativo nome di Kant (senza alcuna relazione teorica con il filosofo di Könisberg) e non ancora Peter Kien;
Auto da fè, titolo inglese (e italiano), il quale tradisce l’esercizio di condanna del pubblico sul privato per mezzo dell’abiura e del rogo.
Occorre tuttavia dedicarsi al titolo dell’edizione viennese, Die Blendung, l’accecamento. Se «il fuoco serve spesso da simbolo della massa» (La coscienza delle parole), l’accecamento di cui il romanzo riferisce non si manifesta nell’incendio conclusivo, bensì nella circolazione e nell’esercizio del potere pluri-dialettico che ha innervato le pagine precedenti. Le disgrazie del sinologo Peter Kien – il quale possiede, dice il titolo della prima delle regioni che compongono il romanzo, “Una testa senza mondo”, fatta tutta di ossessione per i libri -trovano esordio nell’intervento di una donna che si insinua tra lui e l’immensa biblioteca sino a costringerlo al mondo esterno. Ma il mondo è senza testa, ovvero irriducibile a qualsivoglia categoria intellettiva, sia pure quella babelica del libro: il mondo è tale per la condizione picaresca, fatta tutta a episodi “senza capo né coda”, a cui le parti, siano esse uomini o libri, sono condannate.
Accecarsi, dunque, ed essere esposti all’arbitrio dell’opinione pubblica, questo Auto da fè di roghi interiori. Stancanelli, Raimo, Albinati, abbagliati dalle proprie biblioteche, accecati dalla lucidità dei propri esercizi di analogia tra il mondo e la testa. È chiaro che né Stancanelli intendesse sostenere CasaPound, né Raimo non sia stato sollecitato da un moto di disgusto, né Albinati ardesse dal desiderio di un bambino di meno, ma appunto: proprio l’incapacità di un metodo che non sia intellettuale dice di quella dialettica mancata. La terza regione del romanzo, “Un mondo nella testa”, non tradisce alcuna sintesi: lo scacco tra la non intelligibilità del mondo e l’ambizione poliziottesca a una lettura che ne permetta una classificazione nella griglia dell’ordine.
Saccheggiando ancora a Canetti il progetto di un’indagine del tutto plurale dei gruppi sociali si potrebbe sostenere che tra “intellettuali e masse” non sembra possibile né dialettica né dialogo, in quanto la dualità è annientata a favore di agglomerati strategici i quali non esprimono di loro stessi che un anelito e uno soltanto, sia esso biologico, economico-politico, estetico, e così via. Al Congresso Mondiale delle Famiglie di Verona si contrappone per esempio non già un’univoca classe di oppositori, bensì la moltitudine che dal femminismo radicale raggiunge le famiglie arcobaleno, gli entusiasti della gestazione per altri, gli antifascisti politici.
Non la “bolla facebook”, il confine ben delineato dei propri ammiratori e critici che si consumerebbe sul territorio virtuale dei social network, manifestazione di tale movimento, piuttosto il contrario: proprio nell’ecolalia delle parti, in quel continuo riverberare se stesse si produce il fenomeno della bolla. L’epoca globalizzata e ancora di più quella digitale, non riuscendo ad annientare con una decisione arbitraria l’immaginario di alcuni ad agire con categorie ormai inapplicabili, le lascia sopravvivere in forma di anomalia.
Antonio Iannone
Massa e potere, Adelphi, trad. di F. Jesi
La coscienza delle parole, Adelphi, trad. di R. Colorni e F. Jesi
Auto da fè, Adelphi, trad. di B. Zagari e L. Zagari