Il quattordicesimo quaderno italiano è uscito

quattordicesimo-quaderno-italiano_webFinalmente l’appuntamento è giunto, il Quattordicesimo quaderno italiano (marcos y marcos, 2019) è giunto. Un’antologia che raccoglie le giovani voci italiane di poeti in transizione dalla fascia emergente a quella di affermati, in cui troviamo (in ordine alfabetico): Cardelli, Donaera, Gallo, Iemma, Lotter, Steffano, Vivinetto. Un’antologia, quest’anno, che propone un’idea di come la forma della poesia stia cambiando, sfociando verso il solco dettato dalla linea lombarda, cioè verso quella forma prosastica, che quasi tutti gli autori presenti in questo libro hanno affrontato. Inoltre, la terra da cui ciascun poeta proviene si impasta nella lingua fino all’uso del dialetto comunale, come in Steffan, o a livello paesaggistico come nella Lotter.

Esaurire qui, in questa sede, un argomento tanto complesso come i quaderni di poesia contemporanea sarebbe a dir poco un’utopia. Mi limiterò a trattare ciascuna raccolta per sommi capi, non potendo dilungarmi, per mancanza di spazio, su tutte le annotazioni possibili.

Certo che ogni antologia è un’azione di violenza e non può incaricarsi di riportare l’omogeneità di un libro con le sue sezioni ben composte, certo che anche se gli autori oltre ad inediti hanno presentato testi editi, a volte ciò crea qualcosa di distante dalla chiarezza, che inficia su quella che avrebbe potuto essere una linea per ognuno, piuttosto che frammenti. Questo almeno considerando il livello autoriale. Invece, a maggior distanza, ad un livello macro, cioè antologico, si crea un melting pot interessante, in cui, sebbene la polifonia delle voci, si vedono macrotemi ricorrenti come ad esempio l’ansia generazionale, il lutto, il mondo, il “dilagare del Niente”. Bello è vedere che alcuni padri letterari tornino in queste voci insieme ai nonni come Montale, Sereni, Verri ecc. C’è chi dice si è la generazione senza padri letterari, io credo che si sia sempre stati orfani, ma perché questo spinge a ricercare una voce, qualcuno da porre nel proprio vuoto. Infatti, quasi tutti gli autori sono poeti orfici e in cerca di una personale tradizione.

Cardelli, La giusta posizione

Ad aprire questo quaderno c’è un 1994. Cardelli cerca, come dal titolo, una posizione, una distanza dal mondo fenomenico e dall’io, è il punto dove forze come l’inerzia e l’inutilità tentano di bilanciarsi con una voglia di desiderio: “abbiamo fame”, scrive. Il mondo esterno si vive attraverso gli urti, che fungono da richiamo per il soggetto come a svegliarlo dal mondo poetico, che non è mondo, ma è tutta proiezione (Immagini sono/ una truffa ben architettata). Di mondo concreto ce n’è davvero poco, è ostruito dalla lucidità della ricerca del perché delle cose. In Cardelli c’è anche un’ansia generazionale e l’ansia di coniugarsi in uno spazio-tempo, in una vita, ansia di cercare una posizione in tutte le tipologie di spazio, utilizzando l’automobile come un veicolo poetante, uno strumento per chiamare la materia poesia: “mentre le pupille/ si accendono e il sangue è un ricordo,/ è già passato, è futuro e passato/ insieme”.

Donaera, Una Madonna che mai appare

Del 1989, sa dosare l’altalenanza formale tra prosa poetica e poesie creando, però, a volte, una certa disomogeneità nel complesso della raccolta. Il linguaggio non è di certo asciuttissimo, quanto magmatico, ipnotico, in continua riesumazione del rimosso per un’affetto che attraversa la pagina e la sua bidimensionalità con uno stile iper-paratattico per quanto riguarda le prose. Lo scavo di Donaera sta nel sangue per riportare un solo istante attraverso il richiamo ad una storia familiare (prima di noi i padri, i nonni, le madri) fino a sfociare nell’uso del dialetto salentino. Le sezioni di poesie sono meno coraggiose sul fronte stilistico, ma sono presenti citazioni montaliane, che già caratterizzavano raccolte precedenti di Donaera, così facendo ribatte il suo sentiero poetico. Di forte impatto resta la sezione Il padre. Un’ustione. in cui la dimensione del bastare è suprema, abbraccia l’ambiente, si pone come limite tra il niente e il bastare necessario che caratterizza gli umili: “Ti immagino, ormai: e basta“.

Gallo, La corsa

L’assenza di punteggiatura, nella poesia della Gallo, tende ad assolutizzare ogni verso e la verticalità con cui cade la poesia nello spazio, che viene continuamente meno, in “buchi neri”, eppure continuamente sondato: “una domanda che scende dagli occhi/ e non si riempie e non si svuota”; poi, scrive: “La luce ci sorprenderà estranei/ da ciò che non abbiamo scelto”. La sezione Appartamenti o stanze vede il costante addensarsi formale da prosa a poesia, a seconda che la terza persona plurale, le donne, si distanzi più o meno fino a coincidere con la voce poetante, in un crescente delirio a cui si dà come luogo una casa, luogo dove vediamo queste proiezioni dell’inconscio restare ferme, scisse, prede. Queste presenze “schizofreniche” sono la voce, il dettato che parla: “ci si tagliano la lingua che ricresce sempre più lunga e invade tutto, l’appartamento o la stanza”. L’ultima sezione, La corsa, è un prosimetro ancora work in progress, ma che ha il ritmo greco della tragedia, un ammasso di regole e tutto è contato come fosse un ultimo respiro attraverso i dialoghi serratissimi. Ritorna anche quella materia nera che assediava “arrivano”/”Dove andiamo adesso?”, a cui bisogna sopravvivere, “Come se bastasse ogni volta chiudere gli occhi per non  farsi trovare”.

Iemma, La settimana bianca

Le poesie della prima sezione, J.B. Barlow, è bene considerarle come un manifesto di alienazione (di nuovo estraneo al concetto di abitazione), e sembrano essere tutto un altro lavoro rispetto alla sezione portante de La settimana bianca. La voce di Iemma è indiretta, si spiega attraverso eventi, torna dalle cose dove è rimbalzata come un radar. Infatti la sezione La settimana bianca si apre così: “una telefonata viaggia per i tubi […], prima scende/per la verticale”. Questa poesia proemiale svolge il compito di spiegare la fallace mappatura radiologica della struttura come scrittura, cioè ci mostra come anche la mano del poeta può fallire in quanto “uomo fallibile/ impaziente ominide che spegne”. C’è un’ansia di destino impressionante e impressionata: “uno si guarda dove sarà inciso”. La clinica in cui si muove la poesia è un limbo tra malati, finiti, belli nella loro malattia con un destino esattissimo; i pazienti mobili, che sono ancora in tempo per tentare un destino. La carica di queste persone si esaurisce in brevi estasi erotiche con le infermiere, risemantizzando questi non-luoghi come iperluoghi dove tutto è ad altissima tensione per osmosi, tensione che arriva fino alla vita dopo lavorativa: “Tutto appartiene agli ospedali”.

Lotter, Questioni naturali

Sicuramente la poesia della Lotter è quella dove è maggiormente presente, legato alla geografia della laguna, l’osceno di etimologia beniana, l’os (?) skené, il fuori scena, cioè ciò che non va rappresentato, che non è conveniente alla esposizione in pubblico, il non essere in scena che equivale a perdere identità e senso. Qui sono rappresentate “le forze paurose del mondo”, anche di lucreziana memoria. Qui vediamo le forze invisibili, che agiscono in un’area delimitata, la laguna, appunto, che funge anche come da limite per divenire in potenza della stessa scrittura, la stessa funzionalità di motus operandi che suscita la siepe di Leopardi. La laguna inoltre ha scene purgatoriali, che rimandano all’arrivo dell’angelo all’inizio della cantica: “La notte quando nessuno guarda/ dal cuore della laguna arrivano le luci”. Il fenomenologico sta nell’atmosferico, cioè nell’atmòs, nel soffio, fiato, aria che prende forma sferica di mondo interiore in rapporto all’esterno, cioè la parola che si fa forma attraverso il verso ha il compito di indagare i “temporali e schiarite, queste piccole aperture dell’universo” in risposta ad una invece psicologia umana. Anche qui tutto è tragico, di matrice deangelisiana, “il tempo non cambia, è uno, è tragico,/ per l’eternità”. Il passato però è negli animali di ere scomparse, “i grandi cetacei del paleozoico”, testimoni e archetipi, come noi, perché si vede “le persone che crescono/ fino a svanire”.

Steffan, Frantumi

È l’unico poeta a proporsi interamente in dialetto, nella lingua madre, avvezza a piccolissimi pastiche linguistici causati dall’immissione di inglesismi come “chainsaw”, “asphalt”, “shit” ed onomatopee “cut-cut”, all’insegna dello zanzottiano “glu-glu-globalizzazione”, per dirci che anche Castello Roganzuolo, sebbene sui colli trevigiani, risenta del presente contemporaneo, a discapito di un presente che prima, invece, era una realtà neorealista. Anche qui risuona Montale: “escoriati, mancanti […]”, ma sono “mancanti”, frantumi, perché non c’è più l’incontro con l’Altro che determina l’esistere. Se Pascoli attraverso le onomatopee e lo sperimentalismo linguistico aveva rinvigorito non solo la tradizione poetica, ma anche la lingua italiana, Steffan annuncia il contrario, la lingua è frantumata non per cogliere le sfumature psicologiche e descrittive, come in uno Zanzotto, ma è frantumata per l’impossibilità di dire in quanto manca l’Altro perché è in una condizione vegetale, o l’altro è animale, il proprio “cane”: “rimasticare scarti di una lingua/ inceppata che si sta frantumando.

Vivinetto, La cifra dello strappo

Anche lei classe 1994. L’intera mole di poesie tocca il tema della transizione, a partire dagli editi da Dolore minimo, agli inediti. Bertoni, nella nota introduttiva all’autrice, sottolinea la pianezza del verso, nel suo tono. A volte, però, sembra di stare dinanzi a della prosa versificata per la prolissità con cui è costruita la forma, sembra venire meno la sintesi. Il tema non subisce variazioni, è uno, è se stesso come hapax, ma narrato: “il simolo del corpo transessuale,/ è la pillola. Tonda, compatta,/ friabile alla saliva, anonima./ La scambieresti per una caramella alla menta o per un’aspirina”. La maggior parte dei versi finali tentano una chiusa ad effetto altamente patetico “quelle stesse dita/ che un tempo furono le tue”, oppure “gli ultimi esseri viventi, noi,/ trapiantati nel mondo dei morti/ per sopravvivere”, “finire d’amarti in tempo”; quasi che si tema che il contenuto dell’intera poesia sopra debba essere sostenuto, quando invece non è così, anzi, è bene sottolineare che la Vivinetto è l’unica, insieme a Steffan, a non aver presentato prose poetiche. A mio avviso perché, appunto, sebbene l’identicità protratta della forma, il contenuto narrativo delle poesie è dove sta la testimonianza che si deve dire, con una lingua dove il tu è una scissione tiresiana, e, per questo, lirica.

Michele Joshua Maggini

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