Mars Room, Rachel Kushner
(Einaudi, 2019 – Trad. di G. Granato)
A undici anni decisi di uccidere il mio compagno di banco. Odiavo i suoi piccoli soprusi: mi prendeva il righello senza permesso e non lo restituiva neanche dopo numerose intimazioni – fingeva di non sapere che i miei pensieri giravano notte e giorno intorno al mio righello chiuso nel suo astuccio: ero convinto che ne godesse. Lo odiavo. E l’avrei ucciso. Non era solo una fantasia, c’era progettualità; avevo calcolato la distanza dalla finestra, la mia altezza superiore, avevo messo in conto la forza della rabbia. Le conseguenze di quel gesto mi sembravano irrilevanti: ciò che contava era, per una volta, far capire al mondo che sapevo reagire, che non ero un fesso.
Ero cattivo? No. Ero vittima di una incapacità, del carattere che mi sarei portato dietro per tutta la vita. Ero vittima di una circostanza. La cattiveria è questo, alla fine, una questione di circostanze: il problema non sei tu, il problema arriva quando incontri il contesto sbagliato. Poco conta quello che scegli: chiedete conferma al Meursault di Camus. Potete chiedere anche alla Romy Leslie Hall dell’ultimo romanzo di Rachel Kushner. Vi dirà le stesse cose.
Vi dirà che non è colpa sua se ha ucciso un uomo. Non è colpa sua se quell’uomo la perseguitava; lei cercava solo di proteggere se stessa e suo figlio. Al sistema basta questo, però: il comportamento sbagliato – non conta la confusione che hai in testa, solo ciò che fai. Non sei cattivo tu. Sono cattive le tue azioni, appena le circostanze lo decidono. Ma il codice penale elenca dei fatti: se li compi, finisci in carcere. Funziona così, che ti piaccia o no. Romy può testimoniarlo.
Adesso che è in prigione cercano di rieducarla. Lei non ha niente da imparare. Come tutte le sue compagne di cella: Laura Lipp, Conan, Bocciolo, Sammy. Sta lì, a scontare due ergastoli, e l’unica cosa che sente è la disperazione di non poter riabbracciare suo figlio – gliel’hanno tolto, non lo vede da quattro anni e probabilmente non lo rivedrà più. Da una pagina all’altra la osserviamo crescere, fondersi con il penitenziario di Stunville, e non cambiare.
Quando arriva, la luce porta il nome di Gordon Hauser. È uno che viene in carcere per insegnare letteratura alle detenute. Romy si avvicina a lui, accetta i libri che le procura, gli fa le richieste più illecite per metterlo alla prova – chiede una tronchese, lui gliela porta. Capisce che si è innamorato di lei. E inizia a sognarlo, allora, come futuro padre di suo figlio. Come uno che finalmente potrà prendersi cura di loro. Perché ce n’è di persone brave in giro, le dice una volta Sammy. Persone brave per davvero. Quando le trovi, sta a loro cambiarti la vita.
Mars Room parla di questo. È un romanzo dalla lingua bollente. Dalla struttura irregolare – a volte scomposta, troppo. È, soprattutto, un romanzo di profondità intellettuale. Un ampio gesto di generosità creativa: non si limita a essere crudelmente realistico – come Don DeLillo, il grande maestro di Rachel Kushner, insegna – ma sa anche racchiudere nell’indagine sociale la lettura privata, esistenziale, di ogni prigione. La prigione intesa come sistema carcerario, innanzi tutto, che negli Stati Uniti come in tutto il mondo non funziona – a partire dall’incapacità di catalogare un uomo che diventa donna: la Serenity Smith che scatena l’epilogo del romanzo.
Ma anche intesa come prigione della mente: le infinite gabbie intime in cui ogni uomo è rinchiuso senza possibilità di rilascio. Che ci intrappolano in ciò che siamo. Che impediscono a Gordon Hauser, al suo mondo borghese di frequentazioni intellettuali e riflessioni su Thoreau, di entrare davvero in empatia con il mondo tutto diverso di Romy: il passato nella droga, il locale dove ballava mezza nuda. Di salvarla. Gabbie che ci trattengono nell’aiutarci a vicenda, o che ci costringono a fare del male. A volte possono precludere ogni altra scelta, ogni scelta normale, socialmente accettabile, lasciando la sola possibilità di un gesto drastico – cattivo. L’unica via, se si vuole sopravvivere.
(A volte. Il mio compagno di banco, per dire, è ancora vivo. E io, per il momento, sono ancora tra i buoni.)
Pierpaolo Moscatello