Brother, David Chariandy
(Chiarelettere, 2019 — trad. Federica Aceto)
Michael e Francis sono due giovani fratelli, nati e cresciuti nel Park, un quartiere popolare canadese. La loro vita è quella dei ragazzi della strada, tanti come loro in quel piccolo mondo fatto di sogni giovanili infranti, lotte tra gang, tentativi di vivere la giornata, violenza e povertà. Francis è il fratello maggiore, un modello che Michael cerca sempre di seguire e recuperare quando, ormai più maturo, il primo prende una via diversa, lontano dalla sua casa e da una madre all’apparenza forte e severa, ma che cela infinito amore ed enormi debolezze.
In verità, c’è poco altro da dire riguardo a Brother del canadese David Chariandy, un libro che, ahimé, ha enorme potenziale ma non riesce a incidere. La storia, appena accennata, è la tipica vicenda di una famiglia immigrata e povera che deve far fronte alle sfide di ogni giorno: il lavoro, i soldi, l’istruzione e la realizzazione dei figli, il futuro di questi ultimi pericolosamente compromesso dalla loro vita di strada. Tutti elementi che, sì, hanno una lunga scia risalente già all’immaginario americano a partire dagli anni Settanta, quello dei rapper e delle gang, ma che possono essere massimamente efficaci e attuali anche oggi. Ragazzi emarginati e senza futuro, quasi costretti a frequentare la strada per trovare un senso alla propria giornata; il terrore di venire inghiottiti dalla periferia e finire in prigione o, peggio, crivellato di colpi da qualche poliziotto, o pestato a sangue da un gangster rivale; e ancora, l’ambizione famelica e la voglia di incidere in un mondo che si è voltato dall’altra parte, lasciando sopravvivere questi ragazzi solo grazie alla musica dei vinili, i lavori sottopagati e quella viscerale fraternità che li rende, nonostante tutto, indispensabili l’uno all’altro.
Brother ha in sé tutto questo, eppure non riesce a svilupparsi in modo concreto e profondo: la storia è una semplice storia, il popolo della periferia è un qualunque popolo della periferia, Michael e Francis sono fratelli qualsiasi, e nulla è in grado di raccontarsi oltre le apparenze (peraltro già raccontate in mille salse); persino la madre, il personaggio più complesso del romanzo, non riesce a essere consistente. Il libro risulta molto piacevole alla lettura, eppure molte volte può sembrare che scivoli un po’ troppo di fretta e, nella furia di voler mantenere alta l’attenzione del lettore, che bruci ogni occasione per scendere un po’ più sotto la pelle della narrazione, arrivare alla polpa di ogni elemento che, però solo in nuce, contiene.
Forse, però, sto sbagliando io: magari, non era nelle intenzioni di Chariandy scrivere qualcosa di più complesso e articolato di ciò che ha scritto. Eppure, è faticoso scacciare la sensazione che manchi comunque, innegabilmente, qualcosa. Soprattutto da chi, come l’autore, anch’egli nato nella periferia canadese, certe realtà le h vissute. Sostanza, coraggio di raccontare al di là degli immaginari già consolidati e dei cliché, forse anche responsabilità di immaginare e scrivere personaggi complessi all’interno di una realtà altrettanto complessa. Anche limitandosi a prendere in esame ciò che in Brother c’è (e non ciò che manca), il lettore può arrivare alla fine del libro insoddisfatto o, peggio ancora, indifferente.
Il significato profondo del romanzo sta nella parabola di Francis, da fratello maggiore idolo ed esempio di virtù, stile e personalità a vittima del suo stesso io, diventando una ferita aperta per tutta la famiglia e soprattutto per la madre, con un fratello minore ora adulto che vuole dettarne la damnatio memoriae per preservare le macerie di un nido distrutto dal lutto e dalla miseria; una parabola tratteggiata però di fretta, che non indugia né esplora oltre il suo percorso naturale, che non si impegna a restituire un maggiore grado di verità (quella umana, nostra, indispensabile in letteratura) oltre la finzione narrativa.
Brother di David Chariandy è un libro piacevole e poco più: non coraggioso, non elaborato e, davvero a malincuore, non memorabile – almeno come meriterebbe la materia che pretende di raccontare.
Michele Maestroni