Arruina, Francesco Iannone
(Il Saggiatore, 2019)
Il sud non è una storia semplice. È una pietra sfaccettata che ogni volta che la lasci cadere atterra su un lato diverso. Non è facile da raccontare. È una materia inafferrabile, e forse proprio per questo nei romanzi degli scrittori meridionali, senza eccezioni, si trova sempre, dosata in quantità diverse, l’ambizione di afferrarla. È come il mito del Grande Romanzo Italiano: siamo in cerca di un Grande Romanzo Meridionale, e con ogni probabilità non diremo mai di averlo trovato.
Per me che sono nato al sud la questione ha più una valenza sentimentale che letteraria. Ho passato l’infanzia in una casa piena di vecchi che parlavano in dialetto. Ho sentito l’odore dei fichi lasciati a seccare sul terrazzo. I muri scalcinati, le tende al posto delle porte d’ingresso, l’asfalto bollente sotto i piedi nudi. C’è qualcosa di indicibile, in tutto questo, di incomprensibile per chi non l’ha vissuto, una magia che ha a che fare, per me, con la parte oscura dell’infanzia.
È una materia incandescente, intrattabile, che facilmente si presta a letture superficiali: mi danno fastidio, per esempio, quei film in cui la rappresentazione dei paesini pugliesi o siciliani segue lo stereotipo della caricatura. Perché è una scappatoia, e lo è per forza di cose: se non puoi prendere di petto ciò che racconti, devi abbassarlo con l’ironia, ti rende la vita più facile. Bisogna aggiungere, inoltre, che provarci con la forma del romanzo, e non con altri strumenti, è forse ancora più complicato, significa prima di tutto mettersi in gioco con la lingua: scavare a fondo per trovare la voce di tutto questo – disseppellire il cuore pulsante.
Per fortuna c’è chi ci prova lo stesso. Con la forma del romanzo, appunto, e quindi in primis con la lingua. C’è chi lo fa usando il timbro del realismo, con intento più o meno sociologico – sotto i riflettori: La ferocia, Lagioia –, e chi invece pesca in punti più profondi e rarefatti – I vivi e i morti, Gentile. Il romanzo di cui si occupa questa recensione appartiene senza dubbio alla seconda categoria, e non a caso più che un romanzo sembra una fiaba trascritta, una storia della vecchia tradizione orale che per caso è andata a imprimersi in un libro stampato.
Già il titolo, Arruina, trasmette il peso della scrittura cercata. È una lingua potente, fatta di cose, di nervi, di sputo, di unghie, di ossa; un italiano estremamente letterario: a volte alto e a volte talmente basso da scivolare inavvertitamente nel dialetto campano. Sta qui l’energia che sentiamo sfogliando le pagine: un’energia musicale, ancora prima che narrativa. Per il resto ciò che si racconta è una storia rapsodica, fatta di ripetizioni, come in una filastrocca; una viaggio in cui mamma e papà vanno alla ricerca della figlia sperduta – la Sperduta, appunto –, e cammina cammina incontrano una serie di personaggi, uno più improbabile e raccapricciante dell’altro.
Arruina sta tra l’horror e la fiaba popolare: certamente non può e non vuole avere il potere di spingere avanti il lettore. Vuole essere, piuttosto, una raccolta di immagini disturbanti, un susseguirsi di simboli e rimandi, una scatola con dentro scatole con dentro scatole, costruita per chi ha la voglia e gli strumenti per mettersi lì a smontare. Nel mio caso, da lettore qualsiasi, ho spesso avuto l’impressione di non riuscire a cogliere. Mi confondevo tra il piano letterario e quello metaforico, senza capire fino a che punto ciò che leggevo fosse da interpretare e dove invece fosse da prendere semplicemente per quello che sembrava.
In breve il piacere di immergersi nella voce potente e nelle invenzioni linguistiche, lo stupore per i personaggi stravaganti e per la violenza vivida e immaginifica delle scene sono stati soverchiati dalla noia: quel pilota automatico che ti spinge ad andare avanti senza soffermarti troppo, perché stai facendo fatica a orientarti. Perché il dolore dei personaggi non è diventato tuo, lo guardi da lontano e lo lasci compiere, avendo già capito da tempo come la storia andrà a finire.
Non è un difetto solo di Iannone: è un problema generale che si presenta quando ti metti d’impegno per raccontare l’indicibile: succede che la sfida letteraria dell’autore si mangia il piacere del lettore, e ciò che rimane è un libro magari importante, ma sicuramente non bello. È la stessa impressione che ho avuto, a suo tempo e con le dovute distinzioni, con La ferocia di Lagioia, che appartiene a un filone diverso ma conserva un’ambizione secondo me analoga.
La domanda che mi faccio, in sintesi, è se abbia senso scrivere libri dimenticandosi di chi legge. Se non sia più onesto trovare un compromesso, rinunciare a certe vanità letterarie per risultare più accessibili, più appassionanti. Cosa c’è di male in un libro piacevole? Chi l’ha detto che qualche trucchetto, qualche espediente di semplificazione debba per forza minare la caratura intellettuale dell’opera? Non sarebbe bello se il Grande Romanzo Meridionale fosse anche in testa alle classifiche, se ci chiedessero di tradurlo in tutto il mondo, se ne vedessimo la copertina a margine delle sdraio, sulle spiagge, d’estate? Non sarebbe, solo allora, il romanzo che racconta tutti noi?
Pierpaolo Moscatello
1 Comment